Accidenti, sono arrivati a pensare anche questo. «Una scelta truce», dico. «Ma voi siete stati addestrati per tutto questo, no?»
La luogotenente getta la testa all’indietro ed emette un suono che potrebbe essere una risata. «L’addestramento militare era già parecchio accelerato, quando ci siamo arruolati quasi tutti noi.»
«Siete sempre stati…?»
La radio gracchia. Lei alza una mano verso di me mentre si porta all’orecchio il ricevitore. Dalla base della radio si dipartono dei fili che finiscono sotto il sedile dell’autista. Mi rendo conto all’improvviso che solo i motori dei veicoli, e dunque il carburante, tengono in carica le radio. Non riesco a sentire ciò che viene trasmesso, e la sua risposta è così rapida che non riesco a distinguere le parole.
La luogotenente dà un colpetto sulla spalla all’autista e si allunga per parlargli in un orecchio; lui comincia a lampeggiare alla jeep che ci precede e agita un braccio, mentre la luogotenente ruota sul sedile e gesticola al camion dietro di noi.
Rallentiamo, i veicoli accostano, e a me viene ordinato di starmene in disparte, a prendere a calci pietre da spedire nel fosso acquitrinoso, mentre la luogotenente si riunisce coi suoi uomini. Getto nelle acque immobili e profonde del fosso il mozzicone di sigaretta, che fa una specie di sibilo. Più in là, interi campi sono allagati: il sistema di irrigazione e drenaggio della pianura è stato sconvolto dalla mancanza di cure da parte degli uomini.
La luogotenente apre una mappa sul cofano di una jeep, indica col dito, gesticola e guarda i suoi uomini a turno, dando ordini a ciascuno di loro.
Ripartiamo, e poco dopo svoltiamo in strade secondarie, fino a imboccare una ripida pista sterrata che ci conduce sul fianco di una piccola valle. La luogotenente sembra tesa, e non ha voglia di parlare; i miei tentativi di riprendere la conversazione di prima le strappano solo grugniti e monosillabi. Non fuma altre sigarette. La nostra jeep si porta in testa e, dopo che qualcuno è andato avanti a piedi, arriviamo alle spalle di una fattoria sul pendio; la luogotenente salta giù e sparisce all’interno della casa.
Riappare pochi minuti dopo, va dietro uno dei camion e si fa passare una borsa che riconosco. È quella in cui avevo messo i fucili quando siamo scappati con la carrozza. A quanto si vede, deve essere altrettanto pesante. Lei la porta dentro la fattoria. Dietro di me, Karma scruta i fianchi della valle e i boschi con un binocolo; si irrigidisce puntando il profilo di una collina, poi si rilassa. «Spaventapasseri», lo sento borbottare.
La luogotenente torna senza la borsa. «Va bene», dice agli altri sulla jeep, e si allunga a prendere la tracolla vicino al suo sedile.
Entrambi i camion e una delle jeep vengono parcheggiati in un alto fienile aperto sul cortile della fattoria. La luogotenente controlla le cartine con me. Indico la prima parte della strada che inizia da qui e anche uno dei soldati, che si è dipinto il viso di verde, nero e giallo, allunga la testa per guardare. Un uomo che non avevo visto prima — un contadino, a giudicare dal vestito e dai modi — apre il cancello di una stalla e tira fuori una dozzina di cavalli. Sono una mescolanza di giovani e vecchi, puledri, giumente e castrati. Ce ne sono due che sembrano purosangue e una coppia di enormi cavalli da tiro, con gli zoccoli larghi e coperti di peli. Vengono sellati i più piccoli, mentre sulle ampie groppe dei cavalli da lavoro vengono fissati gli zaini presi dai camion.
«Salti su», mi dice la luogotenente mentre monta goffamente su una cavalla nera, ingarbugliando le redini. Mi guarda dall’alto. «Sa cavalcare, no?»
Con una torsione monto in sella al castrato sauro accanto a lei. Lo accarezzo sul collo e mi sistemo sulla sella, mentre lei sta ancora districando le redini e cerca di infilare il piede nell’altra staffa.
Strofino la criniera del mio cavallo. «Come si chiama?» chiedo al contadino.
«Jonah», risponde lui andandosene.
Avrei voluto non averglielo chiesto.
Mister Taglio e un’altra mezza dozzina di soldati montano sugli altri cavalli.
Tre soldati prendono la jeep che è rimasta fuori dal fienile e tornano indietro per la strada sterrata da cui siamo saliti. Due uomini restano alla fattoria, a guardia dei tre veicoli. Un soldato — quello che ha studiato la mappa con noi — va in avanscoperta. Ha una piccola radio, non porta lo zaino ed è armato solo di pistola e coltello. Ci mettiamo a seguirlo con i cavalli salendo il pendio, prima attraverso un prato ripido e poi in un bosco fitto e intricato.
La luogotenente riesce a far rallentare la sua cavalla finché arriva al mio fianco. «D’ora in poi facciamo molto silenzio, d’accordo?»
Annuisco. Lei fa lo stesso, poi con un paio di colpi di tacco spinge avanti la cavalla.
Il sentiero si stringe; i rami ci graffiano, ci sferzano, mirano agli occhi. Dobbiamo abbassarci per evitarli, e i cavalli da tiro devono aspettare pazientemente di districare i loro carichi. La nostra ridotta pattuglia arranca a fatica, superando una successione di creste e fossati che sembrano onde dell’oceano, pietrificate e fissate di traverso sul fianco della collina. L’aria è immobile e silenziosa, nella fioca penombra sotto il traforo di rami e le scure torri delle conifere. Alla guida c’è la luogotenente, goffa sulla cavalla nera. Io sono l’unico davvero capace di montare. Il mio castrato sbuffa, e il suo fiato produce da solo un cambiamento nell’aria gelida.
Dietro di noi, i valorosi bruti della luogotenente si sforzano di tenere contemporaneamente sotto controllo le armi che sbattono fra loro e le cavalcature: sono già in battaglia.
Qualcuno vomita, sul fondo della pattuglia.
Ci fermiamo a un bivio, dove ci attende il nostro esploratore. Si direbbe che sulla mimetica e l’elmetto sia spuntata una foresta di rametti, fronde d’abete e ciuffi d’erba. Io e la luogotenente consultiamo la mappa: le nostre gambe si toccano, i cavalli si strofinano il muso l’uno contro l’altro. Indico la strada a lei e all’esploratore. Mentre segno col dito un punto sulla mappa mi accorgo che mi trema la mano. La ritraggo subito, sperando che la luogotenente non se ne sia accorta.
Continuiamo a salire lungo il sentiero ripido e stretto. Mi sembra di distinguere nell’aria un odore di morte che filtra in questi boschi umidi. Qualcosa si rigira nel mio ventre, come se la paura fosse un bambino che entrambi i sessi possono portare e far crescere nelle viscere. Il continuo avvallarsi e innalzarsi di creste contorte ricorda la superficie di un cervello umano, esposto dal bisturi di un chirurgo sotto le volte insanguinate del cranio: ogni divisione nasconde un pensiero maligno.
Sopra il fitto manto dei sempreverdi e oltre l’insieme spezzato di rami nudi e neri, il cielo che prima era blu sembra dissanguato di ogni colore. Ha la tonalità delle ossa seccate dal vento.
DODICI
Qualcosa mi dice che questa storia non finirà bene. Lo sa il mio corpo (mi sussurra qualcosa): gli antichi istinti, quella parte della mente che un tempo chiamavamo cuore o anima, sono più acuti dell’intelletto nel giudicare simili situazioni, sanno annusare l’aria e capiscono con chiarezza che ciò in cui ci siamo imbarcati non potrà portarci che male.
Divento il torturatore di me stesso; ogni senso lotta con gli altri per ricavare il massimo da tutte le sensazioni, ottenendo invece il minimo di significato, e producendo una galleria degli specchi dove un nervoso eccesso di enfasi tende i suoi agguati. Cerco di calmare i miei pensieri ansiosi, ma la sostanza profonda del mio io sembra incapace di qualsiasi presa. Ciò che era solido e affidabile si è liquefatto e non c’è nulla a cui aggrapparsi che non scivoli subito via, lasciandosi dietro un recipiente vuoto e risonante ad amplificare ogni voce di pericolo che i nervi scorticati si affrettano a comunicare.