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Attorno a me, ogni ombra sul terreno diventa la sagoma furtiva di uomini armati, ogni uccello che sbatte le ali fra due rami si trasforma in una granata scagliata nella mia direzione, ogni animale che fruscia nel sottobosco accanto al sentiero è il preludio a un balzo, a un attacco, ai colpi di maglio di pallottole che mi colpiscono o a una mano stretta attorno agli occhi e a una lama che mi taglia senza pietà la gola. Ho il naso e la bocca pieni del puzzo di foreste in decomposizione, dell’afrore di uomini brutali e spietati che attendono, sudando, di aprire il fuoco, e dell’odore di armi oliate e lucenti, ciascuna colma di morte e puntata verso di noi come i galli delle banderuole indicano la direzione del vento. Allo stesso tempo, mi sembra che ogni nostro rumore — il respiro dei cavalli, il più piccolo fruscio di una foglia o lo schiocco di un rametto — declami a piena voce la nostra avanzata e le nostre intenzioni alle foreste, alle pianure, alle colline.

Chiudo gli occhi, stringo i pugni. Vorrei che le budella smettessero di agitarsi. Uno dei soldati è stato male, mi dico. Lo so: l’ho sentito pochi minuti fa. È tutto il giorno che hanno la faccia pallida, nessuno ha mangiato dopo la colazione. Parecchi sono spariti sul retro della fattoria dove ci siamo fermati, per liberarsi da un’estremità o dall’altra. Non devi cedere. Pensa alla vergogna: doverti fermare, smontare, correre in cerca di un riparo, calarti i pantaloni, farti ridere dietro mentre te ne stai accovacciato, obbligato ad ascoltare le loro battute. Pensa all’espressione della luogotenente, alla sua sensazione di trionfo, di superiorità. Non lasciare che accada una cosa del genere. Resisti!

Il mio cavallo si arresta.

Apro gli occhi. Ci siamo fermati tutti. Il soldato mandato in avanscoperta è sul lato del sentiero e sussurra qualcosa alla luogotenente. Lei si volta, fa scorrere lo sguardo sulla fila di uomini a cavallo. Fa con la mano segnali che non capisco, e due soldati smontano e corrono da lei, oltrepassandomi. Entrambi hanno la faccia dipinta di colori mimetici e portano rami e foglie sull’uniforme. Uno regge una lunga balestra nera. Ci siamo ridotti a questo punto, penso io.

La luogotenente dà gli ordini; i tre uomini corrono avanti a grandi passi.

La luogotenente alza un braccio, indica l’orologio e mostra cinque dita. Vedo che gran parte degli altri smontano da cavallo. Alcuni scompaiono silenziosamente nella boscaglia. Noto che l’abbigliamento degli uomini è adesso più convenzionale, più militare; i vestiti variopinti, i souvenir del castello hanno lasciato il posto alla monotona uniformità delle mimetiche. La luogotenente li osserva e sorride. Accarezzo con dolcezza il collo di Jonah, poi mi siedo di nuovo sulla sella, con le braccia conserte. La luogotenente si volta di nuovo, fissando il sentiero imboccato dai tre soldati. La sua schiena sembra tesa e nervosa.

Scivolo in silenzio giù dal cavallo e faccio qualche passo nel sottobosco, in discesa, consapevole dello sguardo della luogotenente. Mi fermo accanto a un albero e mi sbottono i pantaloni. Mi fermo, pronto, si direbbe, e poi guardo di lato, come se solo in questo momento notassi che lei mi sta osservando. La fisso per un istante, poi mi allontano un po’, fino a un alto arbusto. Credo di vedere il suo sorriso, prima di essere nascosto.

Finalmente. Mi slaccio in fretta la cintura, mi accoscio e mi libero. Un’opportuna brezza fornisce un sussurro che copre altri rumori. Ho scelto la direzione giusta: la corrente d’aria proviene dal sentiero. Basta un fazzoletto, sacrificato.

Torno a unirmi agli altri, riabbottonandomi con cura. La luogotenente tiene sempre lo sguardo fisso sul sentiero davanti a sé. Mentre rimonto a cavallo, c’è qualche movimento nella direzione sulla quale sembra appuntarsi la sua attenzione. Fa un altro segnale agli uomini, e riprendiamo a salire lungo il sentiero.

Un minuto dopo superiamo le due sentinelle uccise. Stavano in una piccola trincea fra gli alberi, a monte del sentiero. Sono state trascinate fuori dal loro nido e gettate insieme sul terreno in pendio. Sono entrambe giovani, in tenuta da combattimento; uno ha una freccia di balestra conficcata nell’occhio sinistro, l’altro ha la gola tagliata così in profondità che la testa è quasi staccata dal corpo. Guardando da vicino, si vede che anche la gola dell’altro è stata tagliata, ma con maggiore eleganza. I nostri due soldati asciugano i coltelli sui vestiti degli uomini che hanno ucciso, e hanno un’aria orgogliosa. La luogotenente annuisce soddisfatta e fa un segnale; i corpi vengono gettati di nuovo nella trincea, dove ricadono pesantemente. I due eroi rimontano sui cavalli condotti fino a loro; il terzo uomo, l’esploratore, è scomparso di nuovo.

Troviamo il cannone dieci minuti dopo. A un segnale dell’esploratore la luogotenente ci raduna in un avvallamento e ci fa smontare. Gli uomini si caricano in spalla i pesanti zaini e imbracciano le armi; i cavalli vengono legati agli alberi. La luogotenente fa scorrere lo sguardo sugli uomini, sui loro volti, gli zaini, le armi. Sussurra a qualcuno, sorride, distribuisce colpetti sulle braccia.

Viene da me e mi parla all’orecchio. «Questa è la parte pericolosa, Abel», sussurra. «Fra poco si comincia a sparare.» Sento il suo alito sulla guancia, sento la fisicità di questo basso mormorio che penetra le soffici circonvoluzioni di cartilagine e carne. «Può stare qui con i cavalli, se vuole», mi dice. «O venire con noi.»

Volto la testa, accosto la bocca al suo orecchio. La sua pelle olivastra non ha nessun odore. «Vi fidate a lasciarmi qui con i cavalli?» le chiedo, divertito.

«Oh, be’, dovremmo legarla a un albero», dice con dolcezza.

«Legato o costretto a guardare», le dico. «Lei mi vizia. Verrò con voi.»

«Pensavo anch’io.» All’improvviso compare davanti ai miei occhi un enorme coltello seghettato, con la lama coperta di strisce di vernice scura e opaca: resta nudo solo il filo dentellato, una linea lucente che mi oscilla davanti agli occhi. «Ma d’ora in poi neanche un sospiro, Abel», sibila la luogotenente, «o sarà l’ultimo.» Stacco a fatica lo sguardo da quella lama spaventosa e cerco di cogliere una traccia di ironia negli occhi grigi, ma vedo solo il riflesso di un acciaio ancora più grigio. I miei occhi si sono spalancati; li stringo e sorrido nella maniera più indulgente che posso, ma lei si è già voltata. In lontananza, portato dalla brezza, sento il ronzio di un motore.

Lasciamo i cavalli, attraversiamo un basso argine e un’altra leggera depressione e poi ci arrampichiamo per il ripido pendio di una cresta, solcato di radici; il rumore del motore diventa sempre più forte. Alla fine della salita, in mezzo a un umido felceto nel quale la luogotenente e i suoi uomini strisciano con una grazia delicata e la minima agitazione — cose che cerco di emulare — ci troviamo in cima a una rupe.

Sotto, in piena luce, c’è il cannone, a un tiro di granata. Sta al centro delle costruzioni di una vecchia miniera, circondato dalle rovine di un’impresa fallita: una graticciata corrosa di binari bruni a scartamento ridotto, una traballante torre di legno sormontata da un’unica ruota, scortecciata, magazzini cadenti con finestre vuote o infrante, tetti di lamiera curvi e deformati e una manciata di bidoni arrugginiti.

Solo il cannone sembra efficiente e completo. La sua forma metallica è di un verde scuro e opaco; il suo corpo è più lungo dei camion che abbiamo lasciato alla fattoria. Appoggia su due ruote alte con pneumatici di gomma; sotto la canna ci sono due tubi paralleli, lunghi e sigillati, e a protezione degli uomini c’è una piatta corazza inclinata sulla culatta, dove un intrico di ruote, maniglie, leve e due sedili ribaltabili sormonta una larga base circolare, che dà l’impressione di poter essere abbassata per bilanciare l’arma.