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Sul retro, i due lunghi puntelli sono stati girati per formare una specie di asta da traino. Un gruppo di soldati è impegnato ad agganciarlo a un rumoroso trattore, mentre dietro di loro è in attesa, col motore ronzante, un camion non militare col cassone aperto. Altri uomini in uniforme stanno caricando borse, zaini e scatoloni sul camion, andando avanti e indietro dalla meno rovinata delle costruzioni della miniera; un edificio di mattoni a due piani che doveva ospitare gli uffici. Conto in tutto solo una dozzina di uomini, nessuno dei quali, a prima vista, porta armi. Ci raggiunge l’odore del gasolio.

La luogotenente, accanto a me, usa il binocolo da campo, poi sussurra ansiosamente ai suoi uomini; vengono passati gli ordini in entrambe le direzioni della fila, sopra la mia testa. Percepisco l’eccitazione nell’atto stesso della sua comunicazione ai soldati, due gruppi dei quali stanno correndo via ai due lati della fila, proprio sotto il culmine della cresta: le loro ombre si disperdono, si fondono buie con l’oscurità. Si muovono più velocemente di prima, dato che ogni loro rumore è coperto dai motori e dal vento favorevole. La luogotenente e gli uomini rimasti accanto a lei stanno tutti infilando una mano negli zaini, per prendere caricatori e granate.

Mi guardo intorno: l’azzurro perfetto e privo di vita del cielo, la massa scura di abeti sul pendio ocra dietro la miniera, il cielo arancione, sospeso sul ciglio lontano della collina come dita che si aggrappano a una sporgenza; poi abbasso di nuovo gli occhi sul cannone, che adesso è all’ombra delle colline occidentali. È stato agganciato al trattore. Dietro, il camion si sta muovendo, con l’autista che si sporge fuori dallo sportello mentre il veicolo accosta a fianco di un edificio crollato, verso una roulotte a due assi coperta di tela cerata. Quattro soldati si mettono dietro la roulotte e cercano di spingerla verso il camion, ma non ci riescono. Scoppiano a ridere, e le loro voci rimbombano, poi scuotono la testa, e si mettono a fare gesti al camion.

La luogotenente si irrigidisce all’improvviso; piega la testa, come se volesse sentire qualcosa, o avesse sentito qualcosa. Mi guarda e aggrotta le sopracciglia, ma non credo che mi veda. Forse riesco a sentire qualcosa. Potrebbe essere una sparatoria lontana: non i tonfi nebulosi dell’artiglieria ma il secco scoppiettio di piccole armi automatiche. La luogotenente punta il fucile, abbassando la guancia all’altezza del calcio. I soldati sdraiati accanto a lei prendono anch’essi la mira.

Torno a guardare i soldati della miniera. Il trattore ronza in folle, attaccato al cannone. Sembra che abbiano qualche problema col gancio della roulotte. Passa mezzo minuto.

Poi dall’edificio di mattoni esce di corsa un soldato, agitando un fucile e gridando qualcosa. L’atmosfera cambia all’istante; i soldati si guardano intorno, poi scappano; alcuni si dirigono alla palazzina degli uffici, altri puntano alla cabina del camion, dove l’autista è in piedi sul predellino, si direbbe con lo sguardo fisso su di noi.

Poi vengono colpi d’arma da fuoco da qualche parte alla nostra destra, e il terreno sotto i soldati che corrono verso gli uffici comincia a sussultare e vibrare di detonazioni in miniatura di terra e pietra. Due uomini cadono.

La luogotenente fa una specie di sibilo, poi il suo fucile comincia a eruttare: germogliano fiamme e spine gemelle di dolore mi si conficcano nella testa. Mi infilo le dita nelle orecchie, gli occhi si serrano involontariamente, mentre abbasso la testa, la premo al suolo e mi lascio scivolare all’indietro. L’ultima cosa che vedo della miniera è il parabrezza del camion che diventa bianco, trafitto da grossi buchi neri, e l’autista che viene gettato all’indietro, e cade e si piega come se fosse stato colpito al ventre dal calcio di un cavallo.

Il fuoco prosegue per qualche minuto, intervallato dalla secca esplosione delle granate fra gli edifici della miniera; alzo gli occhi e vedo la luogotenente che si ferma per inserire il caricatore, poi di nuovo sostituisce la coppia consumata con quella posata accanto alla sua mano, e ogni movimento è eseguito con fluida abilità, senza fretta. Il fucile continua ad abbaiare, quasi senza sosta. Nell’aria c’è un puzzo amaro e acre. Un paio di tonfi dietro e sotto di noi potrebbero essere colpi di risposta, e credo di sentire gracchiare la radio della luogotenente, ma lei la ignora o non riesce a sentirla. Ben presto l’unico suono è quello delle armi della luogotenente e dei suoi uomini.

Poi si ferma.

Il silenzio risuona. Apro del tutto gli occhi, e fisso la figura bocconi della luogotenente. Lei sta osservando la fila di uomini al suo fianco. Anche loro si stanno guardando, si controllano. Nessuno sembra ferito.

Mi spingo di nuovo all’insù, lungo il piccolo tunnel di felci appiattite che ho appena prodotto, fino alla cima della rupe e guardo la miniera. Si leva un po’ di fumo. Alcune finestre della palazzina degli uffici sembrano corrose, i loro infissi di metallo sono deformati, i mattoni che le circondano sono polverizzati, ridotti a curve, e frammenti di mattone arancione sono sparsi per terra. Osservando il camion, si direbbe che un gigante abbia intriso un immenso pennello di vernice nera e poi abbia cominciato a scrollarlo, distribuendo macchie nere sulla lamiera. Esce vapore dal radiatore e dai buchi aperti nel cofano. Al di sotto, una scura pozza di gasolio si allarga come sangue sotto un cadavere. Il trattore è inclinato: una grossa ruota posteriore ed entrambe le gomme anteriori sono sgonfie. Ovunque sul terreno giacciono corpi caduti e scomposti, alcuni con fucili al fianco o ancora stretti in mano.

Poi, un movimento alla porta della palazzina degli uffici. Viene gettato fuori un fucile, che atterra e scivola per un tratto del binario. Qualcosa di pallido balugina nell’oscurità dell’entrata. La luogotenente mormora qualcosa. Un uomo esce zoppicando dall’edificio, con la faccia insanguinata, un braccio penzoloni e l’altro che agita quello che sembrerebbe un foglio di carta bianca. Viene colpito da uno sparo che proviene dalla nostra destra, e getta all’indietro il capo. Cade come un sacco di cemento e non si muove più. La luogotenente fa un verso di leggera disapprovazione. Grida qualcosa ma le sue parole sono coperte dai colpi che provengono dall’ultimo piano dell’edificio. Il fuoco di risposta dal nostro fianco destro solleva polvere dai mattoni attorno alla finestra e poi, con uno scoppio, qualcosa sfreccia sopra trattore, cannone e camion e scompare nella stessa apertura; l’esplosione segue quasi immediatamente, e produce una nuvola di detriti che escono dalla finestra scuotendo la polvere dalle grondaie del tetto di lamiera.

Torna il silenzio.

Sono fermo nella luce del crepuscolo sulla strada che conduce alla miniera; il cielo è una fredda cupola turchese sopra la folla buia e silenziosa degli alberi. La luce del sole si ritira lentamente davanti alle ombre, risalendo il pendio. L’aria è fragrante, carica del profumo di resina che ha preso il posto del fumo di polvere da sparo. La ghiaia rossa sotto i miei piedi stride mentre mi volto per ispezionare il campo di battaglia.

Osservo gli uomini della luogotenente che controllano con cautela le forme abbattute che costellano il suolo; tengono i fucili puntati e carichi, voltano e perquisiscono ogni cadavere, impadronendosi di armi, munizioni e di qualunque cosa ecciti la loro fantasia. Uno dei caduti geme mentre viene girato sulla schiena ed è messo a tacere da un coltello. Il fiato gli gorgoglia dalla ferita come un sospiro. Poco sangue, curiosamente.

La luogotenente ha controllato il cannone, e l’ha trovato in perfetta efficienza; Mister Taglio ne sembra affascinato: monta a controllare gli strumenti, fa girare le ruote metalliche, tira le leve, abbassa il lucente fondo metallico della culatta e infila dentro il naso. La luogotenente cerca di usare la radio, ma deve risalire sulla cresta per ristabilire il contatto. La roulotte dietro il camion si rivela piena di granate e cariche per il cannone.