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Il cassone del camion devastato offre altre munizioni, varie provviste, cibo e parecchie casse di vino, in massima parte intatte.

Sulla strada compare la jeep che non si era fermata alla fattoria, annunciata da un grido dell’uomo che la luogotenente ha lasciato di vedetta sulla cresta. I soldati della jeep urlano e ridono e applaudono quelli che hanno conquistato la miniera, e raccontano la loro sparatoria: avevano sorpreso un altro camion all’inizio della strada per la miniera. Raccontano storie, si scambiano insulti burleschi, una sensazione di sollievo riempie l’aria, ovvia e acuta come l’odore di pino. In tutto hanno ucciso circa venticinque nemici. Al passivo: una ferita da nulla, già pulita e bendata.

Qualcosa si muove ai miei piedi. Abbasso gli occhi e per terra, come un altro soldato ferito, vedo un’ape che arranca goffa e appesantita e si trascina alla cieca sulla fredda ghiaia del sentiero: sta morendo nella sua spessa e pelosa uniforme, vinta dal gelo della stagione che avanza.

Un altro grido della sentinella sulla cresta e si sente il rombo di un motore che risale verso la miniera. È uno dei camion della fattoria, con i fari che lampeggiano. Avanza dritto verso di me; devo togliermi dalla strada per farlo passare. Gira ondeggiando al centro degli edifici e si ferma stridendo. Abbasso gli occhi al punto in cui sono passate le ruote, aspettandomi… Ma no: l’ape non è stata schiacciata e continua a strisciare.

Ce ne andiamo alla svelta. Il camion aggancia il cannone e carica il bottino e tutti noi, preceduto dalla jeep, che trascina a fatica la roulotte, appesantita dalle munizioni. Alla fattoria il secondo camion prende in consegna la roulotte e il contadino viene rapidamente informato del luogo dove potrà trovare i suoi cavalli. Ha un’aria scura ma è abbastanza saggio da tenere a freno la lingua.

La luogotenente risale sulla sua jeep; io vengo lasciato sul secondo camion insieme ai soldati, sempre più allegri; mi mettono in mano una bottiglia di vino e mi offrono una sigaretta mentre scendiamo sobbalzando lungo la pista sterrata, nell’oscurità degli alberi.

C’è un ultimo atto, appena prima di imboccare una strada asfaltata: un sussulto di freni e una serie di colpi di mitragliatrice davanti a noi manda tutti in cerca di fucili ed elmetti. Poi alcune grida ci informano che la faccenda è stata sistemata.

Era un pick-up, pieno di commilitoni di quelli uccisi alla miniera, colpito non appena aveva lampeggiato i fari vedendoci arrivare. Anche loro sono stati eliminati senza nessuna perdita: solo uno era riuscito a fuggire dal veicolo crivellato, per morire a faccia in giù sulla strada. Il pick-up incendiato viene spinto fuori strada dal primo camion, si ferma su un fianco in un fosso invaso dalle erbacce sotto gli alberi, e comincia a crepitare per via delle munizioni che esplodono. Lo lasciamo a illuminare la notte, e riprendiamo la strada cantando.

Osservo per qualche minuto quel fuoco lontano, mentre corriamo lungo la strada rettilinea. Il pick-up in fiamme, i cespugli, gli alberi sopra di essi e tutto ciò che può essere infettato da quella febbre producono un rogo che cresce eppure resta uguale; una tremante conflagrazione che aggredisce il cielo notturno e si diffonde mentre noi la riduciamo allontanandoci, così che quella massa instabile sembra fissarsi, e quella consunzione furiosa e unica sembra, per qualche istante, destinata a durare.

Ma poi, dall’apertura sul fondo del camion, che oscilla forsennatamente nelle curve per evitare le carcasse dei veicoli abbandonati, vedo che tutto ciò che abbiamo affidato all’attenzione della notte stellata alla fine soccombe, e le fiamme si smorzano e muoiono.

Io non canto, non grido, non bevo, non rido con l’allegra truppa che divide con me le panche del camion. Aspetto invece un agguato, uno schianto, una conclusione drammatica che non arriva, e quando in questa sguaiata notte d’inverno svoltiamo nel viale della nostra casa, percepisco la mole del castello con una fitta di sorpresa e di amara, sicura delusione.

TREDICI

La presa di una mano si adatta quasi perfettamente al cranio, la calotta è racchiusa osso dopo osso. E dicendolo lo afferriamo.

Ognuno di noi contiene in sé l’universo, la totalità dell’esistenza è inclusa in ciò che ci serve per dare a essa un senso: una massa fungosa, grigia e corrugata, versata in una scodella d’osso delle dimensioni di una piccola pentola (gli uomini della luogotenente dovrebbero guardare dentro l’unta oscurità dei loro elmetti, e vedrebbero il cosmo). Nei miei momenti più solipsistici, ho ipotizzato che non ci limitiamo a sperimentare ogni cosa grazie a quella sfera schiacciata: creiamo tutto lì dentro. Forse immaginiamo i nostri stessi destini e così, in un certo senso, ci meritiamo ciò che ci accade, per non aver avuto abbastanza ingegno da inventare qualcosa di meglio.

Così, quando, nonostante la mia viscerale certezza di una sciagura imminente, arriviamo di nuovo al castello senza incidenti, senza imboscate, e lo ritroviamo tutto intero, con i suoi abitanti sani e salvi, il mio timore precedente svanisce come nebbia al vento, e dentro di me sorge una curiosa sensazione di vittoria e perfino, paradossalmente, di conferma e rivendicazione. Come sempre quando mi ritrovo in questo fervido umore autoreferenziale, mi convinco che quell’insonne forza di volontà che di continuo mantiene la mia vita nel giusto corso ha sconfitto le confuse fantasie di una corrente che avrebbe potuto metterci tutti in pericolo. Forse sono stato io a tener lontano dalla luogotenente e dai suoi uomini quel disastro che li avrebbe travolti se non fossi andato con loro; forse ho davvero fatto loro da guida, in un senso molto più profondo di quello che si immaginano.

Tuttavia, mentre avanziamo rombando sul viale d’accesso e i fari trasformano in una galleria gli alberi grigi e spogli, esamino questa supposizione, e la trovo, a essere benevoli, improbabile. È troppo precisa, troppo autosufficiente; una di quelle credenze superficiali alle quali prestiamo fede, ma da cui non ricaviamo credito, e il cui unico sicuro effetto è di farci diventare ciò che non diventa noi.

I camion accostano fuori dal castello, gli uomini saltano giù e ridono, gridano, scherzano. Sbattono le ribalte posteriori facendo risuonare le catene, il cannone viene sganciato, il bottino della miniera viene scaricato e portato via e i soldati rimasti al castello corrono incontro a quelli tornati dalla mischia. Pacche sulle spalle, finti scambi di pugni, ruvidi abbracci, bottiglie sollevate e fatte tintinnare: le roche risate di sollievo riempiono la notte del vapore che esce dalle bocche.

Smonto timidamente dal camion, incapace di unirmi a questi caldi saluti. Cerco te, mia cara: pensavo ci saresti stata anche tu in questa folla che ci dà il benvenuto, o che guardassi semplicemente da una finestra, ma tu non compari. Vedo la luogotenente che sorride accanto al cannone appena conquistato, circondata da tutto questo turbolento cameratismo, e passa in rassegna con uno sguardo pieno di approvazione la sua chiassosa truppa, e sul suo viso si può leggere un calcolo. Grida, spara in aria, e in una breve saccatura di silenzio, mentre tutte le facce sono voltate verso di lei, annuncia una festa, per celebrare.

Tirar fuori altro vino, ordina; procurarsi le compagne di danza nel campo degli sfollati, far preparare ai domestici il banchetto più splendido con quello che hanno in dispensa, e alimentare il generatore con prezioso carburante per accendere ogni singola luce del castello: stanotte ci divertiremo tutti quanti!

I soldati urlano di gioia, abbaiano alla luna, levano al cielo le canne dei fucili e si mettono tutti insieme a sparare in aria, così forte da svegliare i morti.

La luogotenente e Mister Taglio si consultano brevemente, stando in piedi accanto al cannone e con lo sguardo fisso al ponte sul fossato, mentre gli uomini corrono dai camion al castello, reggendo in due le casse, con le braccia tese in fuori come contrappeso; altri si caricano in spalla bidoni di carburante e si dirigono alle stalle, e la maggior parte, dopo aver puntato i fari di un camion sull’accampamento dei profughi, corrono fra le loro tende, distribuendo gli inviti, anzi insistendo per avere la compagnia delle donne. Sento urla, gemiti, minacce; cominciano alcune zuffe e si rompe qualche testa, ma niente spari. I soldati pian piano ritornano, trascinando le compagne per il polso; alcune mansuete, altre furiose, altre che cercano di indossare i vestiti, altre ancora che saltellano sull’erba e sulla ghiaia mentre si infilano le scarpe. I volti dei loro uomini abbandonati, cupi e impotenti, guardano dalle tende nell’ombra.