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La luogotenente e il suo vice hanno deciso: si farà un tentativo. Il cannone viene sganciato dal camion e attaccato a una jeep.

Il bottino della luogotenente viene trascinato con cura dalla jeep, e nonostante i lamenti del motore attraversa la bocca ferrata nel volto del castello. Il voluminoso pezzo d’artiglieria ci passa appena, le ruote fanno cadere pietre dalla balaustra del ponte, mandandole a finire con tonfi sordi nelle nere acque del fossato; la punta della lunga canna graffia la volta del passaggio sotto il vecchio corpo di guardia. Le ruote della jeep slittano sui ciottoli del cortile e il cannone sembra bloccarsi, ma i soldati, ridendo, lo spingono e lo trascinano e così, a viva forza, riesce a entrare e viene parcheggiato accanto al pozzo nel nucleo cavo del castello. La canna viene sollevata per fare un po’ di spazio, e così le due bocche aperte, il pozzo e il cannone, la ruvida pietra e l’acciaio rigato, puntano entrambe la notte, in un silenzioso concerto di calibri male accoppiati.

Intanto riesce a entrare anche la seconda jeep, trascinandosi dietro la roulotte delle munizioni, circondata da soldati che, a loro volta, trascinano donne e ragazze pallide, alcune delle quali indossano abiti da giorno, e altre solo camicie da notte.

I soldati accendono le torce, brandiscono candele, aprono le stanze e gettano grossi ceppi nei caminetti. Fuori, altri mettono al sicuro i camion nelle stalle e accendono il generatore, inondando il castello di luce elettrica e facendoci strizzare gli occhi non più abituati a tanto bagliore. Quando tornano, abbassano la saracinesca di ferro battuto e la chiudono con un lucchetto. I domestici che non si sono ancora alzati vengono tirati giù dal letto, si accendono le stufe della cucina, si saccheggiano le dispense e in molti risalgono dalla cantina con le braccia cariche di bottiglie. Le doppie porte del salone vengono spalancate, qualcuno scopre una raccolta di dischi e ben presto la musica riempie i locali. I miei gusti si rivelano subito inadatti, e si trovano musiche più consone nelle stanze dei domestici.

La luogotenente fa tirare le tende per nascondere le luci e ordina con calma ad alcuni uomini di divertirsi, certo, ma anche di organizzare turni di guardia sul tetto, per evitare che la festa attiri ospiti indesiderati dall’esterno.

I soldati ripongono i fucili e le bombe a mano, si tolgono i giubbotti, le bandoliere e parte dell’abbigliamento da battaglia. Saccheggiano gli armadi e le stanze di sopra e sulle scale compare un gruppo carico di vestiti appartenuti a noi e ai nostri antenati. Vengono gettati per il salone abiti da sera, camicie, pantaloni, giacche, stole, scialli e soprabiti di seta, broccato, velluto, lino, pelle, visone, ermellino e di pelli e pellicce di un’altra dozzina di specie, vengono disputati, indossati, branditi con aria ultimativa e accettati con riluttanza; le donne traballano su tacchi a spillo, sono costrette a mettere calze di seta, corpetti, vecchi corsetti. Compare una scelta di cappelli. Sulle teste dei soldati e delle loro compagne spuntano piume, penne, caschi, veli; copricapi provenienti da mezzo mondo danzano sotto i lampadari. Alcuni soldati s’infilano pezzi di armatura e tentano ugualmente di ballare, mandando suoni metallici. Due di loro fingono di duellare con le spade, e scoppiano a ridere quando le lame sprizzano scintille, sfregando contro le pareti; sventrano un quadro, tentano di tagliare in due le candele. La luogotenente scuote la testa, ordina loro di mettere via le spade prima che facciano male a se stessi o agli altri.

Mi dirigo verso le scale per venirti a cercare, mia cara, ma la luogotenente, sorridendo, con un bicchiere pieno fino all’orlo in mano, mi afferra per il polso appena metto il piede sul primo gradino. «Abel? Non vorrai lasciarci proprio adesso, vero?» Quanta familiarità. Si è rimessa la vecchia cappa da serata all’opera, e mentre si muove la fodera rossa si increspa dentro la seta nera.

«Pensavo di andare da Morgan. Non l’ho ancora vista. Potrebbe essersi spaventata.»

«Lascia fare a me», dice lei. «Perché non vai a divertirti?» Accenna con il bicchiere al salone, dove la musica rimbomba e i corpi avvinghiati saltano e fanno capriole.

Guardo in quella direzione, e faccio un sorrisetto addolorato. «Magari vi raggiungo più tardi.»

«No.» La luogotenente scuote la testa. «Vacci subito. Sarà meglio.» Allunga una mano mentre si avvicinano Lucius e Rolans, uno portando un enorme vassoio pieno di cibo, l’altro uno più piccolo, di bottiglie di vino già aperte. Ne afferra una, poi spinge verso il salone i domestici. Mi infila la bottiglia in mano. «Renditi utile, Abel», dice. «Riempi i bicchieri fino all’orlo. Ecco il tuo lavoro per stanotte. Cameriere. Pensi di potercela fare? Pensi di averne le capacità? Mmm.»

Sembra già ubriaca, anche se non ce n’è quasi stato il tempo. Si era già messa a bere nella jeep, sulla via del ritorno, o forse la nostra valorosa luogotenente non regge il vino? Guardo l’etichetta della bottiglia, cercando di stabilire l’annata. «Pensavo che avendovi fatto da guida mi fossi già guadagnato il pane, per oggi.»

«Normalmente sarebbe andata così, certo», dice la luogotenente, e sale un altro gradino per mettermi un braccio intorno al collo. «Ma i ragazzi hanno dovuto sparare tutto il tempo e tu no, e poi non sono abituati alle feste nei castelli. Sii un bravo ospite», dice, dandomi un colpetto sulla giacca col bicchiere e versandomi il vino sul gilè. «Ops. Scusa.» Tocca la macchia, la asciuga con la mano. «Viene via, quando lo si lava, Abel. Ma sii un bravo ospite; sii servizievole, per una volta nella vita; renditi utile.»

«E se rifiuto?»

Lei scrolla le spalle, e aggrotta le sopracciglia quasi con grazia. «Oh, sarei terribilmente seccata.» Beve un sorso di vino. «Non mi hai mai visto perdere le staffe, vero, Abel?»

Sospiro. «Dio non voglia.» Getto un’occhiata alla spirale delle scale. «Per favore, di’ a Morgan di non preoccuparsi, e vorrei chiederti di non costringerla a scendere se non vuole. Certe volte è piuttosto timida con le persone.»

«Non preoccuparti, Abel», mi dice la luogotenente, dandomi un colpetto sulla spalla. «Sarò così dolce che più dolce non si può.» Accenna al salone e mi spinge posandomi le mani sulla schiena. «E adesso va’, presto», dice, poi gira sui tacchi e comincia a salire le scale saltellando.

La guardo andare di sopra, e poi con riluttanza raggiungo il salone. Mi aggiro per il saturnale riempiendo bicchieri, prendendo nuove bottiglie da una credenza a mano a mano che le vuoto. Per come è ridotto il pavimento si direbbe che il vino versato equivalga a quello bevuto. Mentre svolgo questo compito vengo di volta in volta ringraziato con affettata stravaganza o semplicemente ignorato. In ogni caso, non tutti necessitano dei miei servigi: alcuni dei soldati si tengono strette le loro bottiglie e bevono a canna. Le loro compagne vengono dapprima lusingate, poi persuase e costrette a bere la loro parte; a poco a poco, però, trascinate dalla musica, dalla danza e dalle rumorose bravate dei soldati, alcune cominciano a sciogliersi, e danzano e bevono di loro spontanea volontà.

Accanto, nella polvere della sala da pranzo in parte demolita, anche lì il pavimento è bagnato di vino, e i vassoi di salatini, carni e dolciumi vengono spazzati via appena arrivano. È sorprendente la quantità e la varietà del cibo, considerando che la festa è stata organizzata senza preavviso; ho il sospetto che le provviste di cibo in scatola del castello non arriveranno fino al mattino.