Un grido, e da sotto un telo compare il piano a coda del salone. Un soldato tira fuori lo sgabello, si siede, fa schioccare le dita e — mentre la musica viene prima abbassata e poi spenta — si lancia in una faticosa, stridente canzone sentimentale. Digrigno i denti e afferro altre due bottiglie da un vassoio appena riempito. Salta fuori una chitarra e una delle donne si offre di suonarla. Un tamburo, con i colori di un reggimento, viene strappato da una parete e il giovane Rolans viene convinto a percuotere la sua pelle logora. Il complesso formato da un soldato, un domestico e una profuga suona come è logico aspettarsi che suoni: troppo forte, senza gusto, selvaggiamente.
Ricompare la luogotenente, facendo strada a te. Mi blocco mentre sto riempiendo un bicchiere, e vi osservo. Tu hai indossato un abito da sera di satin blu marino, un paio di lunghi guanti topazio, hai raccolto in alto i capelli e porti un luccicante girocollo di diamanti. Anche la luogotenente si è cambiata, e adesso porta una giacca da smoking con pantaloni e cravattino nero. Forse non è riuscita a trovare bastone e cilindro. È uno dei miei vestiti, le sta largo, ma non sembra importarle. La musica ha un’esitazione quando il pianista vi vede entrare. Gli uomini della luogotenente fischiano e gridano e applaudono. Lei si inchina con volgare esagerazione, ringrazia per l’accoglienza, si prende un altro calice di vino, ne porge uno a te, e poi ci invita a continuare.
La donna che suona la chitarra è trascinata a ballare; il complesso si prende una lunga pausa e riprende la musica registrata. Le bottiglie di vino passano direttamente dalla cantina ai vassoi e da questi alle mani e il loro contenuto viene versato nei bicchieri e nelle gole. La sala si scalda, la musica viene alzata, i mucchi di cibo diminuiscono, i soldati fanno ballare le loro donne, alcuni le portano di sopra, altri giocano come goffi bambini troppo cresciuti, e scompaiono per ritornare con un nuovo giocattolo scoperto in qualche angolo del castello. Soldati urlanti montano su vassoi e si lanciano giù per le scale; un vecchio mappamondo di legno che riproduce il mondo antico, rimosso dal suo supporto, viene fatto rotolare fino al salone e preso a calci come un pallone; i soldati strappano due picche da un pannello sulla parete, legano cuscini alle estremità, due uomini le afferrano, e seduti su carrelli portavivande vengono spinti dai compagni su e giù per il salone, in una giostra che tra le risa e le cadute abbatte vasi e urne, lacera tappeti, strappa ritratti dalle pareti.
La luogotenente danza con te, al centro del salone. Quando la musica si interrompe e lei ti guida di lato a prendere i vostri bicchieri, io mi avvicino per servirvi. Un tremendo schianto, seguito da molte risate, risuona da qualche punto del piano superiore. Sopra di noi c’è un rombo di tuono, qualcosa di pesante che rotola, un rumore più forte della musica che è ripresa.
«I tuoi uomini si comportano da vandali», dico alla luogotenente mentre le riempio il bicchiere, cercando di sovrastare il chiasso. «Questa è casa nostra; la stanno devastando.» Giro lo sguardo per vederti, ma tu non sembri interessata, fissi con gli occhi spalancati le capriole dei ballerini che si urtano e mulinano sul pavimento. Un soldato sta bevendo qualcosa che ha l’odore della paraffina, lo sputa e gli dà fuoco. Accanto alla finestra, seminascosti dalla tenda, un uomo e una donna stanno copulando contro il muro. Un altro schianto di sopra. «Gli avevi ordinato di trattare bene il castello», ricordo alla luogotenente. «Ti stanno disobbedendo.»
Lei si guarda intorno, con gli occhi grigi che le luccicano. «Prede di guerra, Abel», mormora pigramente. Fissa te, poi mi sorride. «Ogni tanto è necessario togliere loro il guinzaglio, Abel. Tutti gli uomini che erano con te, oggi, probabilmente pensavano di andare incontro alla morte; invece sono vivi, hanno vinto, hanno ottenuto il premio e non hanno perso nessuno dei loro amici, per una volta. Sono eccitati dal fatto stesso di essere sopravvissuti. Che cosa ti aspettavi che facessero, che si bevessero una tazza di tè e se ne andassero a letto presto con un buon libro? Guardali…» Fa oscillare il bicchiere in direzione della folla. La sua pronuncia è sempre più confusa. «Abbiamo vino, donne e musica, Abel. E domani potrebbero essere tutti morti. E oggi hanno ucciso. Ucciso un sacco di uomini proprio come loro: uomini che avrebbero potuto essere loro. Forse adesso bevono anche alla loro memoria, o semplicemente per dimenticarli; una cosa del genere», dice corrugando la fronte e sospirando.
Il soldato che voleva dar fuoco al suo respiro si è invece incendiato i capelli; si mette a gridare e a correre e qualcuno cerca di gettargli addosso una pelliccia bianca, ma sbaglia mira. Un altro afferra l’uomo che brucia e gli versa una bottiglia di vino in testa, spegnendo le fiamme. Si sentono grida che provengono dall’esterno del salone, e il suono di qualcosa che arriva rimbombando, precipita lungo la spirale di gradini di pietra e si schianta a metà strada, facendo risuonare l’aria.
«Mi dispiace moltissimo che stiano facendo un po’ di confusione», dice la luogotenente, volgendo lo sguardo da me a te. Scrolla le spalle. «I ragazzi sono ragazzi.»
«Così non hai intenzione di fare nulla? Non li fermerai?» le dico. Un uomo si arrampica su per un grande arazzo di fronte alle finestre. Fuori, nell’atrio, un altro cerca di mettersi in piedi sulle spalle di un commilitone e afferrare il cristallo più basso del lampadario.
La luogotenente scuote la testa. «Sono solo proprietà, Abel. Solo cose. Cose senza vita. Solo cose. Spiacente.» Mi prende la bottiglia dalla mano, si riempie il bicchiere e me la ripassa. «Ti converrà andare a prendere altro vino», dice, posando il bicchiere sulla credenza. Prende anche il tuo bicchiere, lo sistema accanto al suo, poi ti prende la mano. «Balliamo?» ti chiede.
Vai con lei, al centro della sala, mentre le altre coppie vi fanno posto. Il tizio che si arrampicava sull’arazzo scivola, si aggrappa alla tela, urla mentre l’arazzo si squarcia dall’alto in basso e lo spedisce a schiantarsi, ridendo, su un carrello pieno di bicchieri e piatti.
Continuo a riempire bicchieri nella sala da pranzo e nell’atrio, mentre osservo i tesori del castello che poco alla volta avvizziscono e si polverizzano attorno a me. La cosa che rotolava di sopra e precipitava per le scale era un’enorme urna di ceramica, vecchia di duecento anni, portata fin qui dall’altro capo del mondo grazie a un antenato — un’altra preda di guerra, adesso infranta, ridotta in cocci e polvere, che giace in una luccicante serie di mucchi di detriti, sparsi sulla scalinata come un’immobile cascata di polvere brillante.
Hanno cominciato a togliere i ritratti dalle pareti: ritagliano le teste e infilano nel buco le loro facce congestionate. Uno cerca di ballare, barcollando sbilanciato, con una statua di marmo bianco; un nudo perfetto, splendente, una quarta Grazia; gli altri urlano di gioia vedendolo inciampare e lasciare la presa, così che la statua cade, e la sua nivea serenità finisce con lui, senza protestare, a colpire la cornice di una finestra e a infrangersi; la testa rotola lontano, si staccano entrambe le braccia. Rimettono in piedi il soldato e infilano la testa di marmo su un’armatura priva di elmo. Un altro si arrampica sull’orlo esterno del lampadario, e si mette a ondeggiare come un pendolo tintinnante di luci e barbagli, facendo scricchiolare il gancio che lo regge al soffitto.
Le fanciulle e le matrone già oltraggiate adesso barcollano e turbinano nella danza, stridono ubriache, aprono le bocche e le gambe poco superbe per accogliere gli uomini della luogotenente. Molti soldati ubriachi stanno duellando con le spade, e solo un residuo di buonsenso li ha condotti a usare armi ancora nel fodero. Nel cortile, osservati dalle facce smunte, premute contro la saracinesca, degli uomini due volte privati dei loro possessi, alcuni soldati rompono una bottiglia di vino sulla canna del pezzo d’artiglieria e lo battezzano «il Cazzo della Luogotenente».