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Tu continuavi a massaggiare insieme me e te, mentre io restavo sdraiato, ancora incredulo, paralizzato dalla novità di quanto accadeva, da quell’ultimo e bizzarro cambiamento della sorte. Avevo paura a reagire, esitavo perfino a manifestare la minima volontà, temendo che la stupefacente (e perciò, di necessità, precaria) combinazione di circostanze che aveva elargito tale imprevedibile rapsodia venisse sconvolta dal minimo errore da parte mia.

Dopo aver guidato le mie dita inghiottite in te con un ritmo più rapido e più deciso, all’improvviso ti mettesti a tremare, sospirasti, e subito dopo allontanasti la mia mano dandomi un colpetto sul polso. Lasciasti ricadere il vestito, tirasti indietro le mie coperte, poi ti inginocchiasti e mi prendesti in bocca, succhiando e muovendo la testa, con i tuoi capelli che mi facevano il solletico alle cosce.

Mi limitai a guardare. Forse fu semplicemente quella sorpresa, forse — più probabile — il fatto che ero ancora troppo piccolo. In ogni caso, non ci fu, in quella prima prova, nessuna culminante esplosione di tripudio né alcuna emissione nel tempo che avemmo a disposizione. Il solletico, il movimento della testa, il succhiare andarono avanti per un po’, finché il domestico, sempre più nervoso per la paura di essere scoperto, bussò alla porta e la aprì appena per sussurrare un ammonimento. Lasciandolo cadere dalla bocca come uno scintillante lecca lecca, baciasti il mio roseo gonfiore, poi lo copristi e ti allontanasti con calma eleganza; la porta si aprì e si richiuse per te e rimasi solo.

O non del tutto: arrotolai di nuovo le coperte per osservare il mio nuovo amico, che ormai mi stava lentamente abbandonando. Lo toccai a titolo sperimentale mentre mi annusavo lo strano aroma sulle dita, ma la mia virilità se ne andò di sua iniziativa, e non l’avrei più rivista appieno fino al giorno in cui il vento e la pioggia mi tesero un’imboscata nei boschi fangosi.

Tu, mia cara, non avresti rivisto lo spettro che avevi risvegliato fino al nostro convegno sul tetto del castello, dieci anni dopo, in una notte tiepida, sopra la festa.

QUINDICI

L’acqua nera del pozzo sa di marcio: è l’odore di qualcosa che trasuda dalla terra, un odore che, benché rancido, dovrebbe almeno essere caldo e avvolgente, e invece è freddo e acuto. Colgo anche una traccia di odore umano, che indica che il vino e il cibo vomitati qui dentro si sono mescolati all’orina per creare toni ancora più pungenti che accompagnano il lezzo terroso del buco.

Tiro su nel naso un po’ di sangue; dentro l’elmo di metallo avverto una specie di rimbombo. Cerco di alzarmi ma mi sento paralizzato dal freddo. Mi chiedo da quanto tempo mi trovo qui. Alzo la testa, facendo sbattere l’elmo contro la parete del pozzo, per cercare di vedere l’imboccatura. Luce. Luce attraverso i fori dell’elmo, forse. O no. Sbatto gli occhi e la vista si mette a girare. Mi fa male il collo. Abbasso la testa e vedo ancora le luci.

Poi rivedo le stelle e resto sdraiato nel cuore svuotato del castello, stretto nel suo abbraccio notturno, mentre la sua avida freddezza mi infetta, e mi sento parte dei suoi soffocanti detriti: un altro granello disperso, gettato prima agli elementi più rapidi e poi al suolo, fatto rotolare lungo una direzione, una strada, un letto che non ho la possibilità di scegliere, e nessun modo di abbandonare.

Io non sono che cellule: niente di più, credo. La presente combinazione — ossa, carne, sangue — è più complicata della maggior parte delle miscele similari reperibili sulla rozza superficie del mondo, e la mia quota di plasma cosciente può essere maggiore di quanto riescano a mettere insieme altri animali, ma il principio è lo stesso, e il risultato di tanta sapienza in eccesso è semplicemente quello di farci conoscere appieno la verità della nostra irrilevanza. Il mio corpo, tutto questo essere stordito, sembra poco più di un mucchio di foglie d’autunno, sospinte e adunate da un mulinello di vento, e intrappolate, stipate da una casuale geografia sussidiaria in un deposito circoscritto. In che cosa sono più importante di quella temporanea pila di foglie, di quell’aggregato di cellule, sottoposte a una morte collettiva? Perché ciascuno di noi dovrebbe avere più significato?

Eppure continuiamo ad ascrivere a noi stessi una quantità di dolore, di gioia, di peso, di importanza maggiore rispetto a qualsiasi altro ammasso di materia, ed è questo il nostro sentimento profondo. Forse ci lasciamo sedurre dalle nostre stesse immagini, e quella di una foglia secca trascinata lungo la strada non è la stessa di un profugo.

Portiamo dentro di noi il limo dei nostri ricordi, come i tesori riposti nelle soffitte del castello e ne siamo sbilanciati, ma il nostro limo ha profondità geologiche e risale, attraverso le storie comuni, le genealogie, le stirpi, ai primi contadini, al primo gruppo di cacciatori, alla prima caverna condivisa o albero con un nido. Grazie al nostro spirito riusciamo a risalire ancora più indietro, e al di là, tanto che conserviamo gli strati sepolti delle geologie di tutti i pianeti negli stadi del cervello, e conteniamo nel nostro corpo la conoscenza delle esplosioni dei soli che vissero e morirono ben prima che noi esistessimo.

Più è profondo il limo più è potente il flusso, e non riesco a scendere fino in fondo, fino agli estremi detriti, non finché respiro e penso e sento. Le mie ossa potrebbero restare comodamente qui sotto — solo minerali, cose fredde, «cose» — ma non l’uomo che pensa a un eventuale epilogo.

Sprofondato in questo buco, credevo un tempo di vedere le profondità del cielo, di guardare in quel passato che è l’antica luce delle stelle, e allo stesso modo adesso, abbassato a una comprensione più elevata, aiutato dai miei torturatori, credo di vedere la via verso il futuro. Da qui, con questa nuova prospettiva, credo di vedere l’insieme del castello, il suo disegno si staglia su di me, trasparente e confermato, grazie a una terra non più opaca, che mette a nudo le pietre dell’edificio innalzate dal suolo alla comunione della pioggia e dell’aria.

Ecco la casa militante, un’impresa perfettamente abbozzata rannicchiata attorno a un vuoto segreto e protetto, con le insegne e le bandiere che si agitano impavide al soffio di venti volgari; un pugno in un guanto di ferro che prevale sull’aria spianatrice.

Giaccio sul fondo, seminale, germinale; una cosa diretta verso il fango, verso la terra, in evoluzione, per nulla sgomentata dal peso del passato incommensurabile compresso sotto di me e dalla colonna di atmosfera che tenta di schiacciarmi, due forze che insieme premono e mi costringono a sottomettermi e a diventare parte di una superficie più grande e più grossolana.

Ma adesso è adesso, è adesso la richiesta, e devo agire.

Tento di scrollarmi o di strapparmi via l’elmo, ma non ce la faccio. Decido di liberare prima le mani.

Mi dimeno, intirizzito dal freddo, per sciogliere il nodo. Piego le dita e cerco di far presa sulla corda di campanella che mi tiene strette le mani. Spingo e tiro e contorco i polsi tra i legacci.

Un rumore, di sopra.

Alzo lo sguardo nel buio, e mi pisciano addosso; l’urina rimbalza su di me, risuonando delicatamente sull’elmo e sibilando nell’acqua. È appena tiepida: il passaggio nell’aria fresca della gola del pozzo l’ha portata quasi alla stessa temperatura dell’acqua immobile sul fondo. Qualche grido, e poi, con un tonfo che mi fa sussultare, qualcosa di solido colpisce l’elmo e finisce in acqua. Risate, di sopra; altre grida, che si affievoliscono e poi tornano. Poi alcuni conati di vomito.