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Sedendomi, trovo una borsa infilata fra i due sedili, con qualcosa di duro all’interno. Infilo una mano, mordendomi le labbra per il dolore, e tiro fuori una pistola automatica, pesante, con uno splendore offuscato. La rigiro. È fredda e allevia il dolore della mano. La tengo stretta e mi allontano dalla jeep, raggiungendo la saracinesca chiusa che blocca il passaggio sotto il corpo di guardia. Oltre il breve tunnel c’è un barlume di torcia che illumina la balaustra spezzata del ponte sul fossato. Sbircio attraverso la griglia di ferro battuto.

Sento qualcuno che russa, quasi sotto di me, dall’altra parte della saracinesca. Faccio un salto all’indietro. Arrivano i suoni di qualcuno che si sveglia, si rigira, borbotta. Ho come l’impressione di un’oscurità che si muove, di gente che si alza per riempire lo spazio davanti a me. Poi uno strofinio, e un fiammifero che si accende. Mi riparo gli occhi, e attraverso la griglia metallica vedo prima una mano, poi un viso scuro, poi altri tre. Gli uomini dell’accampamento mi fissano attraverso il ferro battuto, le cui aperture tracciano un grafico di rassegnata preoccupazione sui loro volti tirati e sporchi.

«Chi è?» dico. Il fiammifero tremola. Non posso leggere nulla su quelle facce; sono forse spaventate, rassegnate, furiose? Non lo saprei dire. «Vi conosco?» chiedo loro. «Conosco qualcuno di voi? Chi siete? Cosa è successo? Che ora è?»

Il fiammifero tremola di nuovo, prossimo alla fine. Viene lasciato cadere all’ultimo momento, e si spegne prima di toccare i ciottoli. Apro la bocca per ripetere le domande, ma sembra del tutto inutile. Sento uno scalpiccio, il rumore di gente che si risistema, e capisco che gli uomini si stanno sdraiando di nuovo, come prima.

Provo a girare la ruota di ferro che alza e abbassa la saracinesca, ma il lucchetto è chiuso. Sto per voltarmi quando mi viene in mente la chiave che ho preso ad Arthur e infilato in una tasca. Mi sono ricordato di spostarla quando mi sono cambiato d’abito? Mi tocco con delicatezza le tasche con la mano libera. Trovo la chiave, la prendo fra due dita impacciate e la provo, ma sbatte nella serratura del lucchetto, molto più larga. Gli uomini si agitano al rumore, poi si rimettono sdraiati, e ben presto ricominciano a russare.

Mi fermo lì, con le mani tremanti per la fatica, stringendo una chiave sbagliata nell’oscurità quasi assoluta, poi mi volto e lascio gli uomini in attesa oltre la saracinesca, serrata ma aperta, e avanzo verso il cuore del castello, indovinando di essere diretto verso qualche piccola sciagura.

SEDICI

Nero su nero, il castello si staglia sospeso nella distorta simmetria dell’aria, senza offrire garanzie di soluzione, ma lasciandomi entrare, lurido e dissotterrato, attraverso la porta non chiusa né sorvegliata. L’atrio, illuminato dagli ultimi mozziconi di candela, sembra il quadro vivente di un massacro. Corpi disseminati sul pavimento; pozze di vino, scure come sangue. Solo un respiro sonoro e qualcosa di mormorato in un sonno profondo provano che si tratta di torpore di massa, e non della scena di una strage. Mi avvio sulla scalinata. I miei piedi restano appiccicati su alcuni gradini e, nonostante le mie cautele, sbriciolano rumorosamente qualcosa su altri. Nei corridoi e nelle stanze del primo piano mi accoglie una confusione di tavoli rovesciati, sedie fatte a pezzi e scrittoi abbattuti; ecco tende appallottolate sotto le finestre, ecco un opaco luccichio di frammenti di cristallo e cerchi metallici nel punto in cui è caduto e si è infranto il lampadario; nel camino del salone fumano i resti bruciacchiati di sedie scheggiate e di cassetti: spirali di fumo si levano pigre nell’oscurità che le attende a bocca aperta. Due corpi addormentati giacciono avvolti nei brandelli squartati dell’arazzo che prima occupava l’intera parete; vedo una mano soldatesca che stringe ancora il collo di una bottiglia.

Dappertutto scintilla la devastazione di vasi, lampade, statuette, ridotti ad ammassi seghettati le cui punte taglienti, estratte da ciò che era un tempo il loro io intatto, risplendono come ghiaccioli confitti in un ammasso di ritagli torti e strappati che un tempo erano pagine di libri e mappe, stampe e dipinti, tessuti e fotografie, tutti gettati come una neve vecchia e grigia di riporto su un paesaggio di desolazione assoluta: la morbidezza di questo strato sembra una sorta di espiazione per la violenza che è stata necessaria alla sua creazione.

Una tale deliberata distruzione. La mia casa, la nostra casa, desolata, saccheggiata, in rovina; il tesoro raccolto nei secoli, da un intero albero genealogico di antenati e in mezzo mondo annientato in una notte di frenetica e insensata licenza. Mi guardo intorno, scuotendo la testa, mentre i sensi vacillano davanti alla percezione della portata e della scala di ciò che è andato perduto. Una tale bellezza, una tale eleganza, una tale grazia: tutto devastato. Tanti oggetti accumulati con amore, tanti preziosi possessi, tanta elaborata ricchezza, tutto cancellato dall’adulta esagerazione di una collera infantile, liquidato davanti all’esplosione momentanea di un’allegria distruttiva, abbandonato a nient’altro che alla furia improvvisa e infiammata di un vandalo.

C’è, nondimeno, una parte di me che esulta al pensiero di ciò che è stato compiuto e che si sente liberata grazie a tutta questa distruzione.

Da dove ha avuto origine gran parte del nostro irregolare godimento, se non dall’infrazione, dalla rottura, dalle macerie? Abbiamo infranto leggi e tabù e strutture morali, e il nostro apostolato, la nostra infezione hanno causato lo stesso comportamento negli altri. La massima parte dei valori che la società considera fondamentali li abbiamo sdegnati, demoliti, abbattuti. Più un’azione era aberrante, più vi abbiamo trovato diletto: il piacere elementare di un atto veniva ingrandito e moltiplicato dalla gioia deliziosa di immaginare la rabbia apoplettica che avrebbero ostentato quasi tutti gli altri se fossero mai venuti a conoscenza di ciò che avevamo fatto, per non parlare — altro pensiero maligno, eroticamente eccitante — delle arteriosclerotiche vette di scandalo a cui si sarebbero innalzati se ne fossero stati testimoni oculari.

Abbiamo piegato a tali voleri il corpo — nostro e altrui — che ormai non ci restano altre proibizioni da ignorare, altre santità da insozzare, altre leggi da infrangere. Ci siamo fermati davanti allo stupro non simulato, alla tortura non volontaria e all’omicidio, ma a parte ciò molte volte ci siamo sottomessi a grandi dolori e corteggiato la morte mediante dolci costrizioni. Cosa rimane, che non richieda la forza, e dunque che ci abbassi al livello del comune stupratore o del vile torturatore, la stirpe miserabile che può raggiungere i propri scopi solo con la materiale sopraffazione degli altri? Nulla, avrei pensato fino a oggi.

Avevo creduto che ormai non ci rimanesse che la prospettiva degli stessi atti compiuti con nuove sfumature e l’occasionale, minima variazione. Era, è vero, la causa di una punta di rimpianto, qualcosa con cui è abbastanza facile convivere, come il rendersi conto che è impossibile ottenere tutti gli oggetti del proprio desiderio, o la distante prospettiva della morte in tarda età. Vedo adesso che restava sempre questa possibilità: la distruzione dei nostri valori, delle proprietà che avevamo care. Riconosco di essere stato cieco a non capire che una parte della moralità che condividevamo con gli altri implicava restrizioni degne di essere infrante, e perciò nascondevano in quella sovversione una quantità di piacere in precedenza mai sospettato.

Non credo che avrei mai potuto compiere una simile devastazione: la nostalgia, qualche residuo di sentimento familiare, il rispetto per l’abilità artigianale e la consapevolezza dell’impossibilità di condurre a termine una tale rovina me l’avrebbero impedito; ma dato che ormai tutto questo è stato compiuto da altri, perché non dovrei assaporarlo e gloriarmi del risultato? Chi altro dovrebbe farlo? Chi altro lo meriterebbe? Non certo questi casuali distruttori, questi occupanti temporanei: dubito che sapessero che i dipinti che hanno ridotto a brandelli, il vaso scagliato contro un muro o il libro gettato nel fossato o lo scrittoio schiantato e bruciato nel camino valessero ciascuno più di quanto potrebbero mai pensare di guadagnare, in pace come in guerra. Io solo posso con equità e con il dovuto discernimento apprezzare cosa è andato qui distrutto. E non mi dovevano questi materiali, questa ricchezza di mercanzie e d’arte un ultimo contrappeso di piacere, un’ultima tenerezza, benché non fosse altro che il riconoscimento, nel commiato, del loro perduto valore?