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Perduto, dunque. E insieme a tutto ciò, è scomparsa anche gran parte delle cose che ci eravamo trascinati dietro quando abbiamo lasciato il castello, pochi giorni fa. Adesso potremmo anche rinunciare a questi muri non più ingombri, credo. Ora non resta che la nuda struttura, e non vorrei tentare di indovinare quanto riuscirà a sopravvivere rispetto ai beni che un tempo ha ospitato. Resiste solo il guscio, il solo corpo: comatoso, vegetativo, rapidamente abbandonato dagli abitanti, con la padronanza di sé ridotta ormai a nulla.

Ma grazie a questa perdita, noi vinciamo. Siamo liberi, possiamo finalmente andarcene, allontanarci col cuore oltre che con le gambe.

Attraverso il salone deserto, passando davanti al fragile applauso dei vetri infranti e alla ferrosa approvazione delle armature gettate per terra, delle spade cadute e di indecifrabili detriti metallici. Una fioca luce lunare filtra fra le nubi che si aprono e si allontanano, consentendomi di vedere. Strappo un arazzo che pende insaccato da una parete e digrigno i denti per la feroce fitta di dolore che ne ottengo. Rimetto sul piedistallo una fanciulla di marmo e appoggio il suo braccio spezzato sullo scaffale accanto; la fanciulla splende lattescente nella luce grigio-azzurra, luminosa e spettrale.

Raccolgo, chinandomi, una statuetta. È una pastorella, idealizzata, ma squisita e splendidamente eseguita, come la ricordavo. Ha perduto la testa, ed è stata spezzata dal suo piedistallo. Mi accuccio per cercare gli altri pezzi. Trovo la testa coperta da un cappellino, e strofino via un po’ di polvere di gesso dai lineamenti delicati. Il naso è stato scheggiato, e la punta brilla, bianchissima, attraverso il leggero rossore della vernice. La testa sta in precario equilibrio sulla sottile scanalatura del collo: la poso con cura sullo scaffale della libreria, accanto al braccio della statua, e poi continuo ad avanzare in mezzo alla devastazione.

…E non posso fare a meno di ricordare altri danni tumultuosi, molti anni fa, provocati da papà anche se portati a termine dalla mamma. Fu anche l’occasione della nostra prima separazione.

Il ricordo è annebbiato, non tanto per l’accumulo degli eventi che si frappongono quanto per la mia giovanissima età in quel momento. Rammento che dopo l’iniziale scambio di urla, la mamma strillava e papà si limitava a parlare, che la voce di lei aggrediva le orecchie e che invece bisognava sforzarsi per distinguere le parole di lui. Ricordo che lei lanciava e lui si abbassava, o tentava prese al volo.

Noi eravamo in camera nostra, a giocare, quando sentimmo le loro voci, talmente alte che erano salite fino a noi, raggiungendoci nello spazio arioso della soffitta dipinta di chiaro. La bambinaia era sempre più nervosa, sentendo le urla e le grida, le parole aspre e le accuse che filtravano dalla camera da letto al piano di sotto. Andò a chiudere la porta, ma il rumore arrivava lo stesso, per mezzo di qualche strada secondaria della geografia più volte alterata del castello, mentre noi giocavamo con i mattoncini o i treni o le bambole. Credo che ci guardassimo l’un l’altra, restando in silenzio, e continuammo a giocare.

Finché non potei più resistere e superai la bambinaia, aprii la porta e scesi di corsa gli stretti gradini, singhiozzando, mentre la donna mi gridava di tornare indietro. Anche lei si mise a correre, e tu ti avviasti a passi felpati dietro di lei.

Erano nella camera di papà. Varcai di corsa la porta mentre la mamma gli scagliava contro qualcosa. Una porcellana, parte della collezione che lui aveva radunato, volò, bianca come una colomba, attraverso la stanza e si infranse sul muro, sopra la testa di papà. Credo che avesse cercato di afferrarla, e ce l’avrebbe fatta, se non fosse stato distratto dalla mia improvvisa comparsa. Mi guardò infuriato, mentre correvo in lacrime dalla mamma.

Lei era in piedi accanto a una vetrina, vicino al muro; lui era vicino alla porta che collegava le due stanze da letto. Papà era vestito per andare in città. La mamma indossava una camicia da notte trasparente sotto la vestaglia, era spettinata, sulla faccia aveva la crema di qualche trattamento di bellezza. Nella mano sinistra teneva un foglio di carta color lavanda su cui c’era scritto qualcosa.

Lei non si accorse della mia presenza finché non andai a batterle contro la coscia e mi aggrappai a lei, supplicando che lei e papà smettessero di gridare, di litigare, di comportarsi in maniera così orribile. Annusai il suo profumo, quel suo odore naturale difeso con tanta cura e quella leggera essenza floreale che prediligeva, ma colsi anche qualcosa d’altro; c’era un profumo diverso, più chiaro e muschiato del suo, e solo in seguito capii che doveva provenire dal biglietto spiegazzato che teneva in mano.

Pensavo, forse, che solo per il fatto di essere lì, solo col ricordare loro la mia esistenza sarei riuscito a farli smettere di litigare, senza immaginare che la mia presenza, anzi, proprio la mia esistenza avrebbe potuto fornire un altro stimolo alla disputa. Non sapevo che l’intero corso successivo delle nostre vite sarebbe stato determinato da due pezzi di carta, presenti entrambi in quella stanza. Uno — bianco, severo, dai bordi netti, piegato con cura nella giacca di papà — era una lettera con un sigillo di stato, che lo inviava in una capitale straniera a rappresentare la sua nazione; l’altro — quello azzurro e profumato, stretto con furia dalla mano della mamma — era stato nascosto da papà, scoperto dalla mamma, nuovamente nascosto da lei e infine rivelato, pochi minuti prima, come reazione. Entrambi rappresentavano una possibilità per chi li sventolava; insieme definivano la calamità che incombeva sulla nostra famiglia.

La mamma mi strinse a sé e io singhiozzai nella consolante trapunta della vestaglia, mentre il suo pugno chiuso — quello che stringeva il biglietto — mi premeva tremante fra le scapole. Lei riprese a urlare, con le parole che precipitavano veloci, disperate e affannate dalla bocca. Parole feroci, accusatrici, umiliate; frasi e periodi carichi di scoperte e tradimenti e abbandoni e atti sordidi e odio. Allora capivo ben poche di quelle parole, oggi non ne ricordo direttamente nessuna, ma il loro significato, il loro peso mi perforavano le orecchie come lance infuocate e mi esplodevano nella mente; le gridai di smettere e mi portai le mani alle orecchie.

Anche altre mani si chiusero attorno a me e cominciarono a spingermi fuori. Mi aggrappai di nuovo alla mamma, ancora più stretto, mentre la bambinaia cercava di strapparmi via e tu eri ferma sulla soglia, con la mano sulla maniglia, con gli occhi scuri spalancati, calmi, inquisitori.

La voce di papà era misurata, calma, ragionevole. Parlava di dovere e opportunità, di stanchezza e di nuovi inizi, del peso del passato e delle promesse del futuro, di terre inaridite e di terre vergini. La sua calma glaciale aveva l’effetto opposto sulla mamma e ogni parola sembrava eccitare il suo furore e trarre nuovo veleno da lei: ogni parola che alludeva alle responsabilità pubbliche veniva distorta, e costretta a mettere in discussione il suo comportamento privato, e diventava non solo vuota ma disonorevole.