Finalmente, mia cara. Trovo te e la nostra luogotenente.
La stanza è illuminata da larghi monconi di candela e dai resti del fuoco nel camino, con i ciocchi ridotti a incandescenti caverne rosso scuro in un paesaggio grigio e nero, privo di fumo e di fiamma. Su ogni candela c’è un bagliore a forma di lacrima, immobile come vetro soffiato. Tremano appena alla debole corrente prodotta dal mio ingresso, una dopo l’altra: prima la candela sul lato più vicino del camino, poi quella su una cassapanca, poi quella all’estremità lontana del fuoco, infine la candela sul comodino, su cui è posata una pistola automatica di metallo nero e lucente. La dolce marea delle ombre lambisce la pelle della luogotenente e la tua, come la luce che accarezza le forme levigate della vostra carne condivisa.
Il corpo della luogotenente, di cui è visibile una metà in verticale, è più snello di quello che mi sarei aspettato. In questa luce, la sua pelle sembra quella di un bambino: morbida e rosata. Siete sdraiate insieme, nude, con le membra intrecciate, circondate da un caos indolente di cuscini, lenzuola, vestiti; la tua guancia è sulla sua spalla, la sua gamba gettata sul tuo fianco, una sua mano è posata con leggerezza sul tuo seno. Come sembra vulnerabile, insieme a te, mia cara, la nostra luogotenente, come è muto l’orgoglio del comando, quanto poco da luogotenente è la sua nuda accessibilità, quanto disposta al sonno la spalla che si adatta alla guancia, la nera capigliatura arruffata, la posa languida del braccio gettato all’infuori, la curva succosa della natica e la morbida mano a coppa: tutte le sue membra fluttuano sulle gonfie lenzuola di seta come relitti a stento collegati in un mare magico e calmo.
E quanto innocente, quanto bella appari tu, innalzata sopra la dissolutezza alcolica inghiottita dai piani inferiori, languida e composta in una pace comune e silenziosa, sicura nella tua morbida cittadella di sonno. Avanzo con cura ai piedi del letto, stando bene attento ai punti in cui il pavimento cigola, abbassandomi per evitare che la mia ombra proiettata dalle candele cada sul viso serenamente addormentato della luogotenente.
Quanto desidero unirmi a voi due, scivolare in silenzio fra voi e condividere il vostro calore, essere accettato da lei e insieme da te.
Ma so che non è possibile. Nessun atto della luogotenente fa pensare che i suoi gusti possano accettare una simile inclusione, o che lei possa cedere a ciò che desidero io. Devo contentarmi di essere stato testimone, di aver visto quanto doveva essere visto e sarà serbato con cura nella mia memoria. È sufficiente. Non ho idea di cosa potrebbe comportare quanto ho visto, del mutamento di situazione e fedeltà che potrà suscitare in seguito, ma da molto tempo abbiamo convenuto che cose come queste devono essere trattate con ragionevole passione, e di correre questo rischio. Solo il margine che ci siamo concessi ci permette di andare alla deriva insieme, solo i legami più allentati ci terranno uniti. La nostra ampia licenza è stata la garanzia di una rilassata affiliazione, e ci ha mantenuto nelle nostre orbite irregolari, mentre una minor portata di reciproco consenso ci avrebbe ben presto separati per sempre.
È stato egoistico, da parte mia, intromettermi in questo modo. Continuate a dormire, gentili signore. Perdonatemi per aver tratto questa minima quantità di piacere dalle conseguenze del vostro. Uscirò di scena, vi lascerò in pace e forse troverò un letto da qualche parte, di sopra.
Mi muovo con la cautela necessaria attorno al letto, badando di nuovo a dove metto i piedi, di nuovo piegandomi sotto la linea di luce che congiunge lo stoppino delle candele agli occhi chiusi della nostra luogotenente.
Un’asse scricchiola sotto di me, dove prima non si era mai mosso nulla. Certo, capisco all’improvviso; sono vicino al tappeto che copre il buco lasciato dalla granata. La luogotenente si muove nel sonno. Faccio un lungo passo per togliermi dall’asse danneggiata, che manda uno schiocco improvviso tornando a posto. Sento un rumore dietro di me, sul letto, e comincio a voltarmi, sbigottito, perdendo l’equilibrio, barcollo e metto il piede sul bordo del tappeto, pensando che sia centrato sul buco.
Ma qualcosa nel castello mi tradisce. Mentre guardo all’indietro, e vedo la tua testa che comincia a levarsi e la luogotenente che si volta di scatto, torcendo le coperte attorno a sé come un bozzolo filato — mentre i suoi occhi si aprono lentamente e la sua mano si protende verso il comodino — il mio piede finisce nel buco malchiuso sotto il tappeto. La gamba scompare di sotto, trascinandomi con sé; l’altro piede scivola sul pavimento di legno mentre comincio a sprofondare. Le mie braccia si distendono, e le mie mani tentano di stringersi a…
La pistola, dimenticata nella mia presa bloccata dall’ustione, emette un rumore assordante. Liberata come un uccello artigliato per aggrapparsi alla salvezza del trespolo marmoreo del camino, la mia mano, con le dita che si contraggono dolorosamente, si stringe invece al grilletto della pistola. Esplode uno sparo, e rimbomba nella stanza con una forza assordante, e una lancia di fuoco sgorga dalla bocca, coprendo la luce delicata delle candele e delle braci, accecandomi. Ho la gamba incastrata nel buco; mi volto mentre cado, e la mia testa colpisce la griglia metallica al bordo del focolare; la pistola sta ancora sparando, posseduta da una sua vita sussultante, e il suo folle abbaiare mi riempie la mano e le orecchie. Il marmo si crepa, si disperdono schegge, grida e colpi di rimbalzo echeggiano da qualche parte nel gorgo del rumore. Rotolo sulla schiena, confuso, mentre la pistola continua a saltarmi in mano. Anche mentre cado sul pavimento, con la gamba bloccata, preso come un animale in trappola, mi scopro a chiedermi come faccia la pistola a continuare a sparare, e solo oscuramente comincio a capire che, al contrario di tutte le pistole che abbia mai usato, questa spara finché si tiene premuto il grilletto. Dico alla mia mano di aprirsi, voglio che le mie dita lascino il grilletto, e intanto cerco di risollevarmi, di mettermi seduto.
Allora vedo la luogotenente, nuda e inginocchiata a gambe larghe sul letto, con una pistola tenuta a due mani e puntata contro di me. Apro la bocca per spiegare. Dietro — oltre il rosa del suo corpo agile e disteso — vedo te, rannicchiata, piegata in due, tremante, che ti stringi un braccio.
È sangue quello che c’è sulle lenzuola? Sono stato io che…?
La luogotenente spara prima che io riesca ad aprire la bocca, prima che possa spiegare, o chiedere, o protestare. Qualcosa mi colpisce sul lato della testa come un picchetto conficcato da un martello, facendomi ruotare, facendomi contorcere, facendomi girare gli occhi così da vedere le minuscole fiamme delle candele che roteano e lasciano una scia e creano un alone attorno a me, e le loro piccole vite tremolanti si trasformano in un intero popolo di candele.
Poi la luce si spegne del tutto mentre cado di nuovo all’indietro, colpendo le assi in un silenzio che svanisce.
Oscurità. Non più spari. Immobilità.
Mi sembra di non poter sentire nulla direttamente, eppure in qualche modo sono consapevole delle cose. Sono cosciente di un pianto, di grida, di voci che tranquillizzano, di cose che sbattono pesantemente e terribili ruggiti e rumori di tonfi e di passi. L’esistenza, la presenza di questi suoni mi viene in qualche modo segnalata, ma solo in quanto concetti, entità astratte. Non saprei dire chi piange, chi parla o cosa si dice o quali sono esattamente quei suoni e cosa significano.
Voglio aprire gli occhi ma non posso. C’è una tempesta in arrivo, penso. La pistola mi viene tolta dalla mano. Non fa troppo male. Qualcosa mi rimbomba nel fianco, nelle costole. Accade di nuovo. Mi ci vuole un momento, nell’oscurità che mi avvolge, per capire che vengo preso a calci. Comincia a far male. Il pianto, le grida, i colpi continuano. Sono gli alberi? Sento gli alberi che hanno preso a muoversi nella brezza? Un altro calcio, e questa volta fa più male.
«…qui!» dice una voce, distintamente.