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Avevamo ancora amici, e venivamo ricevuti abbastanza civilmente nella maggior parte dei posti che avevamo conosciuto, e nessuno con una casa come la nostra, con cantine ben fornite e una generosa disposizione, ha mai fatto fatica a trovare gente che affollasse un party, ma nondimeno ci siamo resi conto che calavano gli inviti nelle altre grandi case, così come il tipo e la scala degli eventi pubblici in cui un minimo investimento nelle azioni della morale convenzionale era uno dei requisiti d’ingresso.

In quel tempo, accettavamo la nostra condizione di quasi reietti con l’indignazione dell’altezzosità, e non ci mancavano gli zelanti accoliti disposti a incoraggiare una tale convinzione. In seguito, quando tutti sono finiti in guerra e le terre attorno a noi si sono svuotate, quella selezione ci sembrò nient’altro che un riconoscimento del nostro coraggioso e volontario distacco, e dichiaravamo compiaciuti, ai pochi ancora lì ad ascoltarci, che i vigliacchi che erano fuggiti ci avevano finalmente lasciato in pace. Ancora più tardi, quando ormai potevamo parlare solo fra noi, abbiamo smesso di accennare a simili cose, e forse speravamo che, al sicuro nella nostra casa ormai vuota, le ostilità che si avvicinavano potessero anch’esse ignorarci, così come aveva fatto il resto della società.

Avremmo potuto agire diversamente. Avrei potuto agire diversamente. Sono così tante le scelte che forse mi avrebbero evitato di finire qui sotto.

Ma adesso che ci sono, non so cosa fare. Se c’è un rimedio, non sta nelle mie mani. E naturalmente un rimedio c’è, e sta nelle mani della luogotenente, ed è il suo fucile.

È venuta la mia ora, credo, mia cara. Certo, in un altro senso è venuta ed è andata. Credo di aver fatto del mio meglio per proteggere te e il castello, e adesso, forse, andando verso la morte senza un lamento, potrei almeno portare con me la consolazione di aver lasciato te, se non la nostra casa, in mani più sicure di quanto si siano dimostrate le mie. Forse non c’è salvezza per il castello; il suo valore probabilmente si è ridotto della metà semplicemente per le devastazioni al suo interno, e inoltre lui continuerà a spiccare e a costituire una ghiotta preda per i cannoni finché dureranno questi tempi tormentati. Ma per te c’è speranza; al fianco della luogotenente, se è così che deve andare, grazie alla libertà di movimento, all’abilità e all’equipaggiamento del suo gruppo, potresti trovare una certa sicurezza, una certa protezione. Le sue braccia ti proteggeranno meglio di quanto non abbiano potuto fare le mie.

Poche cose vanno secondo le nostre aspettative, eppure mi sorprendo quando c’è un grido — della luogotenente — e all’improvviso vengo gettato in avanti, semischiacciato sotto i sedili anteriori mentre risuonano altre grida. In lontananza crepitano degli spari, e una sequenza di tonfi scuote la jeep. Prima immagino che abbiamo lasciato la strada e siamo finiti su un terreno roccioso, ma qualcosa in quegli impatti mi dice che non è così. Sterziamo con violenza. Adesso gli spari echeggiano sopra le nostre teste, c’è un’altra sequenza di colpi penetranti, misti al suono di vetro infranto e a un rantolo e un grido, e sterziamo ancor più violentemente nella direzione opposta. Vicino, le urla sono quasi strilli, poi un terribile schianto, da spezzare la schiena, fa roteare il mondo e accende le luci sul fondo dei miei occhi. Rotolo nell’oscurità, colgo per un attimo la luce del giorno, poi qualcosa mi colpisce alla nuca e sono oscuramente consapevole di atterrare su qualcosa di freddo e umido e morbido e profumato di terra, mentre un peso mi grava sulle gambe.

Attorno a me esplode il tuono infuocato di una mitragliatrice. L’odore acre della polvere da sparo mi riempie il naso, mi fa lacrimare gli occhi.

«Karma?» sento che dice qualcuno, da una certa distanza, come dall’esterno. Credo di avere gli occhi aperti ma tutto sembra molto buio. Una sensazione di freddo comincia a penetrarmi nelle ginocchia.

«No», dice un’altra voce. Un’altra sparatoria. Quella cosa che mi pizzica il naso potrebbe essere erba. Sento l’odore di gasolio.

«Là», rantola un’ultima voce. La luogotenente. «Il mulino. Presto: adesso!»

Una terribile esplosione di spari, vicinissimi; di nuovo l’odore di polvere da sparo. Poi diminuisce, e continua a decrescere rapidamente mentre prosegue in lontananza. Mi sembra di sentire gente che corre, sento il tonfo dei piedi sul terreno. Cerco di muovere le gambe: non riescono ad andare in su o in giù, intrappolate da qualcosa di pesante sopra di esse. L’odore di gasolio diventa ancora più forte. Tutt’intorno risuonano armi da fuoco. Mi assale il panico, il cuore si mette a correre all’impazzata e il mio respiro si fa breve e rapido. Ho anche un braccio intrappolato, preso tra il mio fianco e qualcosa di solido.

Districo l’altra mano da duri strati di tela cerata e scopro che vicino alla faccia ho del terriccio coperto d’erba. Sono sdraiato per terra, e la jeep è sopra di me. Pianto le dita nel terreno come artigli, mi afferro e tiro con tutte le mie forze. Le gambe scivolano di qualche centimetro; cerco di scalciare e di fare presa con i piedi. Uso il braccio intrappolato come leva per districarmi da ciò che mi immobilizza, e scopro che a bloccarmi è il mio stesso peso. Qualcosa mi gocciola sulla nuca. L’odore di gasolio diventa sempre più forte. La terra sussulta sotto di me e un improvviso schianto acuto mi fa pensare che sia esplosa una granata in mezzo alle scariche di mitragliatrice.

Spingendo all’insù, poi afferrandomi di nuovo al suolo, riesco a liberare parte delle gambe dal peso che le blocca. I miei piedi incontrano una sporgenza sul pavimento rovesciato della jeep; scalcio e tiro e spingo, cercando di liberare le scarpe, ma si rifiutano di muoversi. Il liquido che mi cola sulla testa sembra caldo, come l’olio del motore. Cerco di girarmi su me stesso, in modo da appoggiare la schiena al suolo. Le gambe restano com’erano, torte a fatica. Adesso c’è un po’ di luce. Spingo via la tela cerata dal mento e tendo una mano, trovando il retro del sedile anteriore. Mi aggrappo al sedile e tiro con tutte le mie forze una gamba. Strisciando, la gamba si libera; l’altra la segue un istante dopo. Il liquido adesso mi cade sulla faccia, e ne sento il sapore. Non è olio del motore, non è gasolio, ma sangue. Lo sputo e mi dirigo verso la luce fioca, facendomi largo fra le pieghe della tela cerata come fra vestiti gettati via.

Il bordo della carrozzeria della jeep mi blocca. C’è solo una spanna di apertura verso l’esterno, dove l’alba pallida che sta spuntando fornisce i primi indizi della forma delle cose. Vengo di nuovo assalito dal panico con l’aumentare della puzza di gasolio. Solo un paio di minuti fa ero pronto a morire, ero colmo di un fatalistico senso di accettazione, ma in quel momento non avevo più speranza, mentre adesso sì. Inoltre, immaginavo che la luogotenente mi avrebbe concesso una morte rapida; un paio di proiettili in testa e sarebbe stato tutto finito. Morire in trappola, bruciato vivo, invece, non mi sembra affatto attraente.

Faccio un tentativo per spostare di peso il veicolo che mi imprigiona, spingendo a quattro zampe, e poi mi dico che non è il caso di fare lo stupido. Tastando attorno, stabilisco che non ci sono altre vie d’uscita. Sopra di me, oltre lo schienale del sedile del guidatore, la mia mano incontra qualcosa. Sembra una testa, una nuca. Incuneata tra lo schienale e il terreno, è ancora calda, e i capelli sono intrisi di sangue. Qualcosa si muove sotto i capelli, facendomi gelare il sangue. Tiro via subito la mano, e cade anche un pezzo di tessuto, freddo, umido, appiccicoso, che mi si avvolge attorno alle dita. Scuoto la mano, cercando disperatamente di liberarmene. Cade vicino alla mia testa e nella fioca luce che filtra dall’esterno riesco appena a distinguere la bandana di Karma.