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Sembra che debba crearmi da solo una via d’uscita. Mi volto e comincio a scavare nel terreno intriso di rugiada, strappando zolle di terra sotto la piccola apertura. La sparatoria continua implacabile e scoppiano altre due granate, e la seconda manda frammenti di shrapnel a picchiettare la jeep sopra di me. Mi aggrappo e strappo e scavo e spingo, estraendo interi cespi d’erba, e le dure radici si spargono e frustano l’aria nel lasciare la terra fredda; poi spingo all’indietro, accanto a me, le zolle, e riprendo a scavarne ancora.

A un certo punto la testa comincia a girarmi, e devo fare una pausa. Il rumore di spari sembra calato, più lontano. Sprofondo la faccia nell’erba spruzzata di terra sotto di me. Ha l’odore terroso dell’umidità, ma anche del sangue, del gasolio, della polvere da sparo. Mi perdo in esso per un istante. Il fuoco è calato di sicuro. Distinguo colpi singoli. Esplode un’altra granata, più distante. Usando una sola mano, misuro la trincea che ho scavato sotto la carrozzeria. Ancora un po’. Strappo erba e terra all’estremità del buco, poi mi volto sulla schiena e spingo, usando come appoggio la sporgenza sul pavimento della jeep e trascinandomi con tutte le forze sul terreno sdrucciolevole e granuloso.

La testa emerge nell’aria fresca; in alto, il cielo è grigio scuro, striato di tonalità più chiare. Punto le spalle contro la carrozzeria della jeep. Ho di nuovo le braccia intrappolate; mi scuoto, mi agito, scalcio con i piedi per fare presa su qualcosa all’interno della jeep. Spingo la testa all’indietro dal fondo del buco che ho scavato, e punto il mento contro il petto. Faccio forza per gettare all’indietro la testa, gemendo di dolore, poi scalcio e mi dimeno. Le spalle si liberano, scivolo più fuori, estraggo le braccia e spingo, e striscio sull’erba umida verso i rami nudi di una macchia di arbusti.

DICIOTTO

Sono sdraiato accanto a radici contorte, e respiro con violenza. Vorrei alzarmi in piedi o almeno mettermi seduto, ma tutt’intorno a me continuano a sparare e non ho il coraggio di alzare la testa. Mi fanno male le mani; avevo dimenticato che erano ustionate quando le usavo per scavare. La jeep è rovesciata sull’argine di un fosso, e il retro è affondato nell’acqua del fondo; le ruote anteriori sono puntate contro le nubi che cominciano a rischiararsi. La strada è disseminata dei detriti lasciati dai profughi, e la jeep non è che uno dei tanti veicoli abbandonati sul nastro asfaltato o ai suoi margini. Davanti a me ci sono degli alberi, una scura massa di conifere. Con una torsione, se guardo attraverso i rami degli arbusti vedo una landa tormentata e sabbiosa, con costoni e colline e qualche basso albero spoglio.

Sulla collina più alta c’è un vecchio mulino a vento, una costruzione di assi dipinte di nero con le pale malconce che formano un crocifisso levato contro la grigia distesa del cielo.

Qualcosa si muove a est, verso le prime luci dell’alba: è un uomo che corre piegato, da un muretto di pietra all’altro. Dalla porta aperta del mulino viene una vampata di fuoco. Il suono dei colpi arriva nello stesso momento in cui l’uomo cade a terra. Cerca di rialzarsi, poi — mentre schioccano altri colpi — si scuote, ha un sobbalzo e giace immobile.

Guardando indietro, vedo un’altra figura che gira dal lato opposto attorno al mulino, tenendo il fucile con una sola mano e sollevando l’altra, stretta attorno a una spalla. Stringo gli occhi per tentare di distinguere meglio l’uomo nella luce ancora scarsa. Non credo che sia un soldato della luogotenente. C’è un istante di silenzio, mentre l’uomo si avvicina alla porta. Nulla si muove all’interno del mulino. Il soldato si avvicina, e arriva a un passo dalla porta.

Dall’interno arriva solo uno sparo, e l’uomo si leva di scatto dal lato del mulino, lascia cadere il fucile e si trascina avanti tenendosi un fianco. Sulla parete del mulino, dove prima era appoggiato l’uomo c’è una piccola chiazza pallida. Il soldato un po’ corre, un po’ cade attraverso la porta aperta del mulino, con le braccia che si muovono e lanciano qualcosa. Altri spari. Lui salta, le braccia si tendono in fuori e per un istante l’uomo ha l’aria comica di uno che voglia imitare la forma del mulino: i suoi quattro arti si allargano come le quattro pale. Quindi cade, crollando come un sacco di ossa rotte, finendo seduto per terra prima di ribaltarsi in avanti e scomparire nell’erba.

L’esplosione nel mulino è un unico lampo improvviso di luce e uno stridulo scossone di suono. Dopo pochi secondi dal mulino si leva un fumo bianco-grigiastro. Per un po’ resto immobile, in attesa, e non avverto altri movimenti né altri rumori.

Poi comincia il canto degli uccelli. Mi fermo ad ascoltarlo.

Non si muove ancora nessuno. Quando rabbrividisco decido di alzarmi. Mi alzo in piedi, barcollando, usando gli arbusti come sostegno, poi mi asciugo la faccia con il dorso di una mano tremante. Mi viene in mente che dovrei avere un fazzoletto da qualche parte, e finalmente lo trovo. Attraverso il tratto sabbioso verso il mulino, piegandomi e sentendomi ridicolo, ma continuo a temere che possa esserci ancora qualcuno, più paziente di me, nascosto, in attesa, con un fucile. Mi fermo accanto a un albero rachitico, e scruto l’oscurità oltre la soglia del mulino. Qualcosa scricchiola sopra di me. Mi abbasso di scatto e quasi cado, ma sono solo i rami, che oscillano nella brezza.

Mister Taglio è appeso a una palizzata di filo spinato, appena sotto il mulino, quasi inginocchiato, con la faccia posata sulle punte; sotto di lui la terra è intrisa di sangue scuro. Il fucile gli pende da una mano, ondeggiando nel vento.

A poca distanza, sul pendio, c’è il soldato che ha gettato la bomba a mano, sdraiato nell’erba alta. La sua uniforme non mi è familiare, anche se non avrei comunque potuto riconoscerlo, dato che la sua faccia è una rossa devastazione di carne insanguinata.

Salgo fino al mulino e provo a entrare. L’interno puzza di fumo e di un odore di muffa che dev’essere quello della farina vecchia. Gli occhi si adattano gradatamente all’oscurità. Nell’aria c’è ancora polvere o farina, che volteggia e si posa sospinta dalla brezza che entra dalla porta. Dal soffitto esce un’unica grande asta di legno, connessa con un assale a due enormi mole antiche, di pietra, in equilibrio nella loro posizione come una coppia di danzatori immobilizzati in una figura. Imbuti e scanalature vanno dalle tramogge alle pietre, vene e arterie di un duplice cuore. Una predella ottagonale di legno circonda il grande troncone di roccia. Non resta molto altro: niente sacchi né grano né farina macinata di fresco; credo che sia passato molto tempo dall’ultima volta che il mulino ha funzionato.

Inciampo su un paio di caricatori di fucili automatici. Accanto alla porta vedo un uomo sdraiato sulla schiena, con il petto squarciato e sanguinante. Sotto la maschera di sangue e farina c’è un viso che riconosco: è uno degli uomini della luogotenente, anche se non so come si chiama. Accanto a lui c’è una radio che sibila. La bomba a mano sembra sia esplosa poco avanti, ai piedi di una spirale di scale di legno che portano a un’oscurità ancora più profonda; i gradini sono spaccati e scheggiati.

Dietro le mole di pietra del mulino c’è la luogotenente, seduta, con la schiena appoggiata alla parete di legno. Ha le gambe tese davanti a sé e la testa è abbandonata sul petto. La testa dà uno strattone quando mi avvicino, e si leva anche la mano, impugnando una pistola. Indietreggio, ma la pistola le sfugge dal pugno e rimbalza sulle assi del pavimento. Lei mormora qualcosa, poi la testa le ricade in avanti. C’è sangue sotto di lei, e la sua superficie è coperta da una sottile patina di farina. Una polvere grigio-biancastra sui capelli, sulla pelle e sull’uniforme della luogotenente la fa assomigliare a un fantasma.