Mi lascio cadere nei cespugli, col petto che si gonfia nel tentativo di prendere fiato, mentre cerco di recuperare le forze e di pensare a cosa fare adesso.
La pioggia, ubiqua, continua a cadere dal cielo basso e pesante, mi imbeve gocciolando dai rami neri e spogli, rovesciandosi dalle ultime foglie del colore della decomposizione: hanno forme frastagliate come mani contorte e restano tenacemente attaccate, ma con fatica, in lotta perenne col vento che le visita. Le raffiche disperdono il fumo che si leva dalle tende e fa scricchiolare e sbattere i rami sopra di me. Mi tiro su e mi inginocchio, e mi imbevo di ogni particolare del castello: le pietre annerite dalla pioggia, le finestrelle disperse sui muri, il buco sul tetto dove sbatte una tela cerata grigia e, sulla torre più lontana, la pelle inzuppata, a brandelli, della tigre artica, da cui, a ogni raffica di vento, esplode una miriade di goccioline; e mi sembra di poter accogliere ogni pietra scheggiata e rimossa, di vederle tutte disposte in un progetto davanti a me, trasformate in un diagramma nella mia mente.
Avanti, dico al mio corpo tremante ed esausto. Muoviti adesso. Ma ha bisogno di qualcosa di più, di più tempo, non riesce ancora a funzionare. Estraggo la pistola automatica, quasi che il suo peso metallico possa contagiarmi con la sua determinazione. Mi fanno male le mani e la testa, dove la pioggia lava la ferita. Le gambe si irrigidiscono. Tremo, e fisso con confusa incredulità i vapori che si levano dalle gambe e dalla faccia e dalle mani e dal corpo, pensando che questo velo fumante sia il mio corpo che evapora, la mia determinazione che si dissolve nella pioggia. Poi riprende a soffiare il vento, e spazza via il mio sudario.
Passo in rassegna le finestre e la merlatura del castello in cerca di te, mia cara, e ho il disperato bisogno di vedere il tuo volto. Guarda giù, guarda giù, perché non guardi giù, a vedere uno di cui la luogotenente sarebbe stata fiera, uno come lei, un assassino adesso, come il suo spirito velato, come un fantasma, nascosto fra i cespugli con una pistola, coperto di fango e di foglie, sfregiato dalla battaglia e da un proiettile, pronto a progettare l’attacco e la liberazione: non un profugo, ma un nuovo soldato, per te.
Sopra il sibilo grigio della pioggia si leva un rumore che si raccoglie e gonfia oltre il castello. Riconosco il rombo di un motore, che cresce, cala, cambia, e allora sento il clacson del camion, suonato con violenza in qualche punto, ancora distante, del viale d’accesso. Esco di corsa dai rami, inciampando e scivolando sull’erba intrisa di pioggia, puntando verso la facciata del castello e il ponte sul fossato. Devono essere partiti all’improvviso, richiamati dalla radio; potrebbero essere andati tutti, lasciando il castello incustodito. Scivolo sulla ghiaia e per poco non cado. Supero il camion, corro sul ponte e mi infilo nel passaggio coperto sotto il corpo di guardia. La saracinesca mi blocca la strada: la scuoto e cerco di sollevarla, invano. Dietro di me, sento il motore del camion, che si fa sempre più vicino.
Dall’altra parte del cortile, appena visibile oltre il cannone, un soldato esce dalla porta principale. Mi immobilizzo. Lui mi vede, torna dentro e riappare all’improvviso con un fucile, spianandolo contro di me. Non mi viene nemmeno in mente di sparargli con la pistola che tengo in mano. Invece mi abbasso, mi volto e corro via; i colpi del fucile scheggiano le pietre mentre io mi lancio oltre il ponte. Il camion sta risalendo dal viale, con le luci accese. Qualcuno si sporge da una finestra, prendendo la mira su di me. Sento un altro sparo.
Provo ad aprire la portiera del camion parcheggiato, ma è chiusa a chiave. Attraverso il sentiero di ghiaia verso la riva erbosa che finisce nel fossato, pensando di usare l’argine come riparo, ma l’erba è troppo bagnata; faccio pochi passi e poi scivolo verso il basso. Cado nel fossato, finisco nell’acqua e mi dibatto disperatamente, boccheggiando in quella stretta gelida, cercando di trovare un appoggio nel pendio ripido sul fondo, sempre reggendo con una mano la pistola e tentando con l’altra di afferrare l’erba o il terreno per tirarmi fuori.
Sollevo spruzzi d’acqua, appoggio la schiena all’argine erboso e guardo in su. Un soldato si sporge dalla merlatura, puntandomi contro un fucile. Agita la mano, grida qualcosa. Io cerco di stare in equilibrio e prendo la mira; la pistola rincula con violenza, una volta, due volte, poi si ferma. Dall’alto delle mura cadono schegge di pietra. Tiro ancora il grilletto, poi getto via l’inutile pistola. Il soldato è scomparso, ma adesso riappare: sbircia, poi si sporge dal parapetto e grida qualcosa. Volto la schiena, e comincio a issarmi con entrambe le mani per uscire dal fossato, aspettando per tutto il tempo lo sparo, il terrificante colpo di maglio di un proiettile che mi colpisce. Invece sento solo risate.
Dimenandomi goffo e impacciato dai vestiti appesantiti dall’acqua, mi tiro all’asciutto e risalgo l’argine. Vola una bottiglia e colpisce l’erba vicino a me, rimbalzando nell’acqua sul fondo. Raggiungo il sentiero di ghiaia e mi metto in piedi, barcollando, e alzo gli occhi alle mura. Il soldato agita ancora il braccio. Adesso i due camion sono parcheggiati insieme. Alcuni soldati stanno scaricando qualcosa dal cassone del camion che è appena ritornato; altri sono fermi a guardarmi. Un’altra bottiglia parte dalla merlatura, frantumandosi dopo un volo arcuato sulla ghiaia vicino ai miei piedi. Uno dei soldati del camion comincia ad avanzare verso di me, e col fucile mi fa cenno di avvicinarmi. Mi metto a correre verso gli alberi.
Mentre attraverso di corsa il prato sento un grido, e mi volto per vedere il soldato che torna verso i camion. Gli altri non mi inseguono né mi sparano. Si radunano dentro il castello.
Mi acquatto fra i cespugli, rabbrividendo. Il mio corpo trema incontrollabilmente per il freddo, e devo farmi forza per convincermi di potermi scaldare ancora. Sulla merlatura, un soldato ubriaco agita una bottiglia, poi si volta e si allontana. Io guardo per terra, a quattro zampe, boccheggiando come un amante frustrato verso il terreno insensibile, inghiottendo il mio stesso respiro. Non riesco a mantenere nemmeno questa patetica postura, perché cedono sia le braccia sia le gambe; devo rotolarmi su un fianco, raggomitolato e fremente fra i cespugli come un animale spaventato e ferito.
Avevo creduto di essermi dimostrato impetuoso e temerario, ma il castello mi respinge. Sono chiuso fuori, e i soldati, sappiano o no che sono stato io a uccidere la loro luogotenente, sembrano disinteressarsi a me e non mi giudicano degno della fatica di inseguirmi. E tu, mia cara, non sei da nessuna parte. La pistola non è servita a niente: due colpi inutili, poi niente. E cosa avrei potuto fare, comunque, con quella roba? Stampella, lapide, tubo, mazza, lancia: le armi da fuoco hanno molti usi, molteplici effetti. Forse alterano le menti oltre che le anatomie; forse le loro emissioni entrano sotto la pelle non in un solo modo, ma in molti. Sono forse loro a decidere, più che quelli che le impiegano? Le loro bocche davvero parlano così forte, le loro canne traboccano di morte e mutilazioni con tale efficacia da parlare più forte di noi che, rifuggendo dal loro uso, non riusciamo a vedere che il danno maggiore lo procurano dietro di loro, piuttosto che davanti?
Ma la luogotenente…
Ma la luogotenente è morta, e così non è un buon esempio. L’ho uccisa perché sono diverso, o perché sono come lei? Ha poca importanza, e comunque la pistola l’ho buttata via.
Adesso sento altre grida che provengono dal castello. Mi metto in ginocchio, perché non riesco ancora a stare in piedi. Il freddo sembra essermi penetrato negli intestini; non credo di poter correre via. Colpi di fucile, ma solo in aria.
Sono dietro le merlature; quasi tutti gli uomini della luogotenente, e alcune delle donne dell’accampamento. Siamo divisi da grigi veli di pioggia, ma riesco a vedere tutto: le pietre scheggiate, la pelle di tigre gonfia d’acqua, il tetto bucato, e quella fila male assortita di uomini e donne, per lo più ubriachi e barcollanti, alcuni che agitano le mani, altri che sorridono, altri che gridano, altri ancora che sparano in aria.