Siete tutte e due con loro. Fino a questo momento c’era una parte della mia mente che si sforzava di credere che la luogotenente non fosse davvero morta, che potesse essersi districata prima che il vento mettesse in movimento le macine, che un soldato che non avevo notato fosse entrato nel mulino prima che le pale ripartissero, che qualcosa fosse saltato nel meccanismo del mulino, così che al muoversi delle pale le macine fossero rimaste ferme. Con la stessa furiosa e insensata speranza, quella parte di me si era illusa sognando una tua fuga dal castello: non eri affatto ottimista sul mio destino — come sembrava — ma inorridita da quello che sapevi che la luogotenente mi avrebbe fatto, e decisa a fuggire dal castello e dal suo controllo.
Fantasie, mia cara, e mi sento ancor più esecrabile per aver immaginato che il fatto di lasciare sullo sfondo quei pensieri, di non aver osato pensarli apertamente avrebbe dato loro una possibilità in più di riflettere la realtà delle nostre circostanze. Invece, ecco la luogotenente: il suo corpo decapitato viene sorretto da due dei suoi uomini. Qualcuno dietro di lei mette un berretto o un basco su quello che è rimasto del suo collo. Credo che alcuni degli uomini stiano ridendo.
Due soldati costringono te — calma, priva di espressione — a salire sulle pietre del parapetto. I tuoi capelli neri, fradici, si appiccicano alla camicia da notte bianca. La stoffa bagnata aderisce come una pelle alla pelle, e lì in piedi, con le braccia dietro la schiena, con lo sguardo fisso nel vuoto, hai un’aria a un tempo smarrita e sensuale.
Ti tirano indietro, sul camminamento; vedo che ti sollevano la camicia da notte sopra la faccia mentre ti spingono contro il parapetto, con la testa fra due merli. Sento grida di scherno. Mi scopro a mordermi un labbro, e me ne accorgo solo quando sento il sapore del sangue.
Non credo che tu conceda un gran divertimento ai soldati, o forse le loro donne tengono a freno gran parte di loro; in ogni caso, dopo pochi minuti ti rimettono sul parapetto. La tua espressione è sempre indecifrabile. Mi sembra di vedere anche un filo di sangue sul mento. Ti stanno legando le braccia dietro la schiena; dal tuo avambraccio destro pende una benda. Credo di vederti tremare.
Gli uomini stanno urlando, e mi gridano di saltar fuori. Cerco di alzarmi, ma ricado all’indietro, paralizzato dal freddo e dalla consapevolezza della mia impotenza assoluta.
Il corpo della luogotenente viene unto con il vino, e poi spinto oltre il bordo del parapetto; cade dopo qualche volteggio nel fossato. Tu, mia cara, hai un’aria impotente quanto me, e i tuoi occhi sono vuoti come lo è la mia mente di idee che potrebbero salvarci. Alcuni sfollati — uomini, vecchie, bambini — avanzano dal lato della facciata del castello, esitanti, incerti, ma attratti dalle grida e dalle risate e dai colpi in aria e dalle voci delle ragazze sulla merlatura. In gran parte si radunano sul sentiero di ghiaia, anche se alcuni restano indietro, timorosi. Osservo gli uomini sulla merlatura, osservo il castello, con la sua bandiera che sbatte, osservo la pioggia, e un uccello nero che volteggia altissimo, e che potrebbe essere uno dei miei, uno dei rapaci che ho liberato, finalmente di ritorno.
Solo te non posso guardare: quella terribile espressione vuota mi agghiaccia, devia verso l’alto, o verso il basso, o di lato il mio debole sguardo. Quel volto è stato lo specchio della mia vanità; su di esso mi hai lasciato scrivere tutto ciò che io abbia mai voluto scrivere, mi hai mostrato tutto quello che io abbia mai voluto vedere. Adesso, come quel punto cieco nell’occhio che solo ci permette di vedere, è l’unica cosa che non posso guardare, l’unica vista che non posso costringermi ad accettare.
Boccheggiano. La folla boccheggia vedendoti cadere, una fiamma bianca e splendente che fluttua verso il fossato.
Corro di nuovo fuori, sbalordito della mia mancanza di controllo ma anche della forza che mi è tornata all’improvviso. I soldati non mi sparano.
Supero alcuni degli sfollati, facendomi largo a spinte, inciampando sull’argine del fossato. Ti si vede solo la testa, che spunta sulla superficie agitata dell’acqua come una risposta al corpo decapitato che galleggia poco lontano, e si muove a causa delle onde generate dalla tua caduta. Tossisci e sputi, dibattendoti. Accanto a me, la gente mormora qualcosa. Guardo in alto e vedo una corda che da un punto vicino alla tua testa raggiunge la merlatura. Qualcuno la tende e la tua testa scompare, trascinata sott’acqua. I piedi, legati, si levano dalla superficie, sussultando, poi le gambe, nude e scalcianti, e il tuo corpo, appeso a quella corda, si torce, visibile a tutti, finché solo la testa rimane sott’acqua.
Sobbalzi, ti pieghi in due, riesci a tirar fuori la testa; il corpo pallido è nudo, e la testa e i capelli sono coperti dal lungo sudario bianco della camicia da notte inzuppata, bloccata attorno al collo; sbatte, gocciola, si increspa, pallida e sinuosa come il tuo corpo tirato. Ti fanno cadere di nuovo. Dopo il tuffo vai sotto; la camicia da notte galleggia attorno a te come una ninfea, poi riemergi, boccheggiando. La corda si tende ancora e tu scompari sotto.
Mi sento gridare, li supplico di fermarsi, di lasciarti andare. Cerco di ricordare i loro nomi, ma non sono sicuro di saperli: «Fogliasecca! Verbo!» grido, ma si mettono a ridere, applaudono e ti tirano su e giù con la corda.
Corro avanti, scivolo e cado lungo l’argine fino all’acqua. Gli uomini fischiano e urlano quando entro nel fossato, tendo le braccia, cerco di afferrarti mentre ti pieghi di nuovo e sollevi la testa fuori dalle onde, ma loro ti spostano più in là, fuori dalla mia portata, applaudendo e sparando di nuovo in aria. Io mi getto a nuoto verso di te, dimentico del freddo e della fatica, con le dita che si protendono come artigli per afferrarti.
Qualcuno si muove sull’argine, uno degli sfollati che grida verso di me e si mette a scendere sull’erba, allungandomi qualcosa. Dall’alto vengono grida di avvertimento, poi sparano e davanti a lui l’acqua crepita e spruzza. L’uomo viene tirato su dai compagni sul sentiero; si stanno muovendo in tondo, seguendo te mentre i soldati ti rituffano in acqua e io cerco di inseguirti.
Afferro l’orlo della camicia da notte e cerco di tirarti a me, ma loro ti trascinano ancora più in là, verso l’angolo del castello e del fossato, e la tela si strappa e cade via. Ci nuoto sopra e si impiglia a me, mi trattiene, mi rallenta. I soldati sghignazzano. Tu colpisci il muro, poi finisci di nuovo sott’acqua, poi salti fuori, sputando acqua, piegandoti debolmente sulla vita; il tuo viso è stravolto dalla tensione, la tua voce non è ancora stata udita.
Continuo a venirti dietro, e l’acqua mulina attorno a me: è un pozzo livido e incalzante di freddo, che prosciuga il calore, la forza, il respiro, il pensiero, la vita. Con le unghie scavo nella melma gelida e indurita che ricopre le pietre del castello, e la camicia da notte da cui non riesco a liberarmi e i miei stessi vestiti intrisi d’acqua mi trattengono indietro, mi tirano a fondo. Giriamo l’angolo, seguiti dalla folla, con i soldati che si danno i turni per reggere la corda, abbassarti e tirarti fuori, e gettano bottiglie che mi cadono vicino, e ridono e urlano. Inghiotto aria, inghiotto acqua, agito disperato le acque cupe, cado all’indietro, mentre loro continuano a trascinarti, e ti scorticano la pelle nuda sulle pietre ruvide dell’angolo seguente. Ormai non ti dibatti quasi più: quando prendi fiato, il suono che ti esce dalla bocca è stridulo e disperato, asmatico. Dall’alto i soldati fingono di incitarmi mentre avanzo, senza coordinazione, nell’acqua gelida e gli sfollati seguono la tua forma pendula e silenziosa fino all’angolo seguente, e poi oltre, scomparendo.