«C’è molto carburante in quelle macchine?» chiede la luogotenente sottovoce.
«Solo quello che non siamo riusciti ad aspirare», le rispondo.
«Si può portare un veicolo all’interno del castello?»
«Non uno di quelli», le dico. «Sono troppo alti. C’è un piccolo cortile, dove può manovrare solo qualcosa di non più grande di una jeep.»
«Non c’è un ponte levatoio?» dice lei guardandomi. Scuoto la testa. Lei sorride appena. «Però mi pare che abbia parlato di un cancello, vero, Abel?»
«È una cancellata leggera, e poi c’è una saracinesca di ferro battuto. Non credo che riuscirebbe a fermare…»
La radio della luogotenente squittisce. Lei leva una mano verso di me e risponde alla radio; ascolta e poi soffia attraverso il naso. «Sì, se riuscite a farlo in un modo pulito. Noi siamo sulla cresta proprio dietro il castello.»
Mette via la trasmittente. «Dilettanti», dice con un sogghigno, e scuote la testa. «Non hanno messo nessuno alla portineria.» Si rivolge all’uomo accanto a sé. «Psycho è tra gli alberi accanto al viale, laggiù», gli spiega. «Dice che sono solo in due a caricare la macchina. Non si vede niente di grosso. Sta per mettersi a sparare, poi uno dei camion e l’altra jeep arriveranno a tutta velocità dal viale. Copriteli.» Si rivolge a me. «Non sono soldati», dice con apparente disgusto, «sono solo sciacalli.» Scuote la testa, poi mette via il binocolo e prepara il fucile, lo fissa e punta. «Morte», dice al soldato con il lanciarazzi. «Non sparare. Almeno finché non te lo dico io, d’accordo?»
Il tizio sembra deluso.
Da dietro il castello vengono degli spari, dal punto in cui il viale lascia gli alberi e risale per il leggero pendio fino al grande prato. Per un istante non si vede niente, poi il fuoristrada riappare accelerando sul vialetto di ghiaia che conduce dall’entrata del castello alle stalle. L’auto sbanda sulla ghiaia, e lo sportello posteriore, aperto, ondeggia con violenza. Il parabrezza è tempestato di crepe bianche e qualcuno lo sta prendendo a pugni dall’interno. Il fucile della luogotenente abbaia all’improvviso, facendomi sobbalzare. La mitragliatrice che hanno trasportato dalla jeep apre il fuoco e io mi tappo le orecchie con le mani. Il fuoristrada trema mentre vola via qualche pezzo, poi sterza bruscamente, le ruote anteriori sembrano spiccare un salto e per poco non precipita nel fossato (per un istante i colpi della mitragliatrice sollevano minuscoli spruzzi nell’acqua); l’auto svolta dalla parte opposta e perde velocità; raddrizza per un attimo e si schianta contro il muro delle stalle.
«Stop!» grida la nostra luogotenente, e il fuoco s’interrompe.
Spirali di vapore si levano dal cofano deformato della macchina. Si apre la portiera del guidatore e qualcuno cade giù, striscia a quattro zampe sul terreno e poi crolla.
Si sente il rumore di un altro motore, altri spari sul davanti del castello, e poi sul viale d’ingresso appare uno dei camion della luogotenente, diretto all’entrata. Il fuoco s’interrompe; il camion scompare alla vista, coperto dal castello. Sentiamo il motore che s’imballa, e poi si ferma.
Ha smesso di piovere. Per qualche istante il silenzio è assoluto, e l’unico movimento è quello del vapore che esce dal motore del fuoristrada. Poi sentiamo delle grida, e altri spari. La luogotenente tira fuori la radio. «Mister T.?» dice. In risposta viene un crepitio.
«Ah, Doppel, cosa sta succedendo?»
La luogotenente ascolta. «D’accordo. Abbiamo preso il fuoristrada. È fuori combattimento. Scendiamo anche noi, dalla cresta dietro il castello. Tre minuti.» Mette via la radio. «Psycho ne ha preso uno sul ponte», ci spiega. «Ce ne sono altri due o tre dentro il castello, ma il camion è arrivato in tempo al cancello. È tutto sotto controllo.» Si mette a tracolla il fucile. «Stecco», dice al soldato grasso che era seduto con me sul sedile posteriore della jeep. «Fermati qui; spara a tutti quelli che scappano via, se non sono dei nostri.» Il soldato grasso fa lentamente cenno di sì.
Scendiamo di corsa, accucciati, tra i cespugli e gli alberi fino al giardino dietro il castello. Dall’interno provengono spari isolati. Prima raggiungiamo l’uomo caduto accanto al fuoristrada fumante. Sul sedile del passeggero c’è un uomo morto, con l’uniforme intrisa di sangue e la mandibola quasi del tutto staccata. A terra, il guidatore geme ancora; il sangue filtra sulla ghiaia sotto il suo corpo. È un giovane alto e sgraziato con la carnagione chiazzata dell’adolescenza. La nostra luogotenente si accovaccia per dargli uno schiaffo sulla faccia, nel tentativo di fargli riprendere conoscenza, ma ottiene solo gemiti. Alla fine si rialza e scuote la testa, esasperata.
Stacca lo sguardo dal ferito e si rivolge al soldato con la mitragliatrice. Karma si è tolto l’elmetto per asciugarsi la fronte; ha i capelli rossi. «Tocca a te» mormora la luogotenente. «Avanti», dice a me, mentre Karma si rimette l’elmetto, schiaccia qualcosa sulla mitragliatrice e punta la canna alla testa del giovane steso a terra. La luogotenente si allontana, e i suoi stivali stridono sulla ghiaia.
Mi volto di scatto e seguo lei e il soldato con il lanciarazzi. Avverto una strana tensione in mezzo alle scapole, come se mi stessi preparando a ricevere il colpo di grazia al posto del moribondo. L’esplosione, singola, violenta, mi fa ugualmente sussultare.
Ci troviamo, tu e io, al centro del cortile del castello, accanto al pozzo. Guardiamo in alto e d’intorno. Gli sciacalli hanno fatto pochi danni. La luogotenente ha interrogato il vecchio Arthur — che aveva deciso di restare al castello invece di venire con noi — e ha scoperto che erano arrivati solo un’ora prima; non hanno avuto il tempo materiale di cominciare il saccheggio di casa nostra prima che la nostra valorosa luogotenente giungesse a proteggerla. Adesso è sua.
I suoi uomini si stanno arrampicando dappertutto; sono come bambini alle prese con un giocattolo nuovo. Hanno messo una vedetta sulla merlatura, e un’altra sentinella alla portineria. Hanno preso possesso del cancello principale e della saracinesca — un rimpiazzo recente in ferro battuto, forse più decorativo che efficace, ma sembra che a loro piaccia lo stesso — e adesso stanno perlustrando le cantine, i depositi e le stanze; i nostri domestici — sorpresi, confusi — hanno ricevuto l’ordine di lasciargli fare quello che desiderano; sono state aperte tutte le porte. Gli uomini — ma per la maggior parte sono ancora ragazzi — si stanno scegliendo le camere; a quanto pare saranno nostri ospiti per più di un fine settimana.
Le due jeep sono parcheggiate qui nel cortile, mentre i camion stanno fuori, oltre il fossato, vicino al piccolo ponte di pietra; la nostra carrozza è stata riportata nelle stalle, e i cavalli al loro recinto. Alcuni degli abitanti del villaggio, fuggiti all’arrivo dei saccheggiatori, stanno tornando, con circospezione, alle loro tende.
All’ingresso del corpo principale del castello compare la luogotenente, avanzando con lentezza verso di noi; indossa una giacca di un rosso vivo con fili dorati e nastri di medaglie. Tiene in mano una delle nostre migliori bottiglie di champagne, già aperta.
«Ecco», dice guardando le mura del cortile. «Non hanno fatto troppi danni.» Sorride a te. «Come mi sta?» Ruota su se stessa a nostro beneficio; la giacca rossa ondeggia.
La luogotenente si allaccia un paio di bottoni. «Era di suo nonno o qualcosa del genere?» domanda.
«Di qualche parente; non ricordo chi», le dico con calma, mentre il vecchio Arthur, il più venerabile dei nostri domestici, appare alla porta con un vassoio e si dirige verso di noi.
La luogotenente sorride con indulgenza al vecchio e gli fa segno di posare il vassoio sul cofano di una delle jeep. Ci sono tre bicchieri. «Grazie… Arthur, non è vero?» dice.
Il vecchio domestico — tondo, occhialuto, rosso in viso, con radi capelli gialli sulla testa — è in preda all’incertezza; fa un cenno alla luogotenente, poi si inchina e mormora qualcosa a noi, poi esita e si allontana. «Champagne», dice la luogotenente, ridendo, mentre riempie i bicchieri; il tuo anello, che adesso circonda il suo mignolo sinistro, tintinna contro il vetro verde e spesso della bottiglia e gli steli delicati dei calici.