Le mie dita, ustionate, congelate, artigliano le pietre viscide e mi trascinano lentamente avanti, sempre con la tua camicia da notte impigliata dietro di me, fino all’angolo. Anch’io giro attorno.
I soldati sono in silenzio, immobili, e la folla è ferma sulla ghiaia.
Tu penzoli nell’acqua, sospesa per le caviglie, e il tuo unico movimento è un ritmico torcersi della corda, che porta il tuo corpo, dal seno ai piedi, verso l’esterno e poi verso il castello, mentre la testa, le spalle e i capelli restano sommersi nella quieta circonferenza del fossato.
Io tremo, poi mi spingo avanti, andando a sbattere contro i tre cadaveri decomposti dei saccheggiatori. Nuoto verso di te. E in questo stato sospeso ci incontriamo dolcemente.
Ti tocco la testa fredda e la sollevo fuori dall’acqua. Hai gli occhi aperti, fissi; l’acqua ti gocciola dalla bocca e si raccoglie nelle narici. La pioggia cade piano attorno a noi.
Uno strattone della corda, e mi vieni strappata: la testa che cullavo scatta verso l’alto, colpisce la pietra, ha uno scarto e gocciola; i capelli neri cadono in lunghe linee rette e morbide, a incontrare la rozza compassione della pioggia. Quelle gocce mi colpiscono in viso, e i soldati ti issano oltre il parapetto, e sputano su di me.
Ondeggio all’indietro, urto l’argine erboso, mi volto. Gli sfollati guardano in basso, in alto, poi due allungano una mano e mi aiutano a risalire, vicino al ponte; la camicia da notte è rimasta a galleggiare sull’acqua. Quando raggiungo la ghiaia in cima all’argine, barcollo e non riesco a stare in piedi; i due che mi hanno soccorso mi aiutano a sedere sull’erba e mi mettono attorno alle spalle un vecchio cappotto; poi grida e spari li disperdono, ricacciandoli nell’accampamento. Cerco di rialzarmi, pensando che in qualche modo potrei ancora fuggire, ma riesco solo a mettermi in ginocchio, e finisco inginocchiato all’ombra dei camion, sulla ghiaia davanti ai ciottoli levigati del ponte.
I soldati sciolgono la pelle di tigre e la gettano di sotto; cade pesantemente sull’erba. Al suo posto legano te, e tirano la corda in modo da issarti; il pennone si incurva, e tu rimbalzi contro di esso mentre ti tirano fino in cima, legata per i piedi, e fissano la corda. La corda si torce e si ritorce, offrendoti alle sconfinate profondità del cielo.
I soldati abbandonano il tetto e, subito dopo, si leva del fumo.
Gli sbuffi grigi diventano neri, riempiono l’aria attorno a te; i riccioli neri del fumo vengono spazzati via dal vento carico d’acqua.
Vedo scomparire la tua sagoma bianca in mezzo al grigio e al nero. Abbasso la testa, e poco alla volta piccoli fiocchi di caligine scendono a ricoprirmi.
La gente è tornata all’accampamento: alcuni si mettono a levare le tende, altri sono già in viaggio sui carri. La pioggia e la fredda acqua del fossato gocciolano via da me. La saracinesca geme e gratta, e si avviano i motori. Uno dei soldati viene a prendermi, mi solleva per un gomito e mi sostiene mentre barcollo e poi mi guida quasi con gentilezza sul ponte. Voglio scappare, correre via per salvarmi, o lanciarmi verso gli sfollati, mettermi a gridare e a piangere e chiedere il loro aiuto, o forse far vergognare i soldati e costringerli a dimostrare pentimento e rimpianto, ma non ho più forze, non ho più calore per te o per me o per chiunque o per qualunque altra cosa.
Gli altri soldati mi vengono incontro, mi mostrano il castello vestito di fiamme, il fuoco che trabocca esultante da ogni porta e da ogni finestra, e poi, con i camion e la jeep e il cannone, abbandonano il luogo alle fiamme e al fumo e mi portano con loro fuori di lì.
Ti vedo attraverso il fuoco, credo, fredda e bianca e sospesa in un punto immobile, intatta fra quelle ondate bellicose, ondeggiante in quella mistura rapida e tumultuosa, in volo nella raffica del vento, un saluto per ogni rovina.
VENTI
E adesso, mia cara, ho finito. La storia è finita, e ha fatto di noi ciò che voleva. C’è stata una sera, e con l’alba verrà il peggio. Guardo il giorno morire lentamente: il pacchiano spettacolo del sole trascina le nuvole con sé e finalmente ha la meglio sull’ultimo debole bagliore del castello.
Un uccello da preda, di ritorno dalla caccia, sta volteggiando ad ampi cerchi, e sale e si lascia cadere sull’ultimo arreso calore emesso dalla nostra casa, tagliando secchi angoli nel tranquillo fumo grigio, riemergendone al di là, virando all’indietro.
Un falco, ne sono certo. Uno di quelli che ho liberato, che adesso è tornato indietro. Alzo lo sguardo, lasciandomi vincere per un istante da una facile ammirazione per l’animale, immaginando che in qualche modo sappia che io sono qui e tu no e che tutto è perduto, che il coltivato istinto dell’assassino l’abbia richiamato a riconoscere i nostri destini.
Ma era solo un uccello, e anche stupido, secondo i nostri criteri; la sua struttura delicatamente feroce, quel cranio tagliato stretto, ospitano l’intelligenza necessaria alla sua funzione di carnivoro, e nessun altro pensiero. Disegnato per occupare il suo posto nella vita grazie alle lotte dei suoi progenitori, scolpito dalla vasta semplicità dell’evoluzione, non ha percezione delle nostre tribolazioni più di quanta ne abbia un coltello, o un proiettile, ed è altrettanto innocente. La sua crudele bellezza, come siamo soliti chiamarla, soddisfa il nostro acquisito timore reverenziale, ma è il nostro orgoglio, la nostra ferocia e la nostra grazia che noi deifichiamo in esso, e a nostro rischio scordiamo che è la nostra mente a essere sottoposta alla presa meccanica dell’artiglio, e proprio grazie al nostro pensiero rimaniamo per sempre superiori a esso.
Sento altri cannoni, il grande rombo che rulla sulla terra da qualche fronte lontano, e quasi mi sorprende: il mondo inconsapevole viene risospinto nella mia coscienza, mentre sono qui legato, condannato, in attesa.
I soldati dicono che partiranno domani. Hanno cacciato via i profughi per occupare il loro misero accampamento sul prato, e adesso anche un paio di mariti e uno dei nostri domestici galleggiano nel fossato. Tu, silenziosa per sempre, sei ancora innalzata nell’aria che si rischiara, una forma annerita sospesa sopra il guscio crollato e sventrato del castello; i tuoi occhi sereni osservano asciutti ciò che l’aria ti offre, e mi chiedo se il falco preferisca la carne cotta o al sangue, e se verrà a visitarti.
Perché anch’io sono legato, ridotto a un giocattolo, a una marionetta davanti alla bocca del cannone. Mi hanno legato qui per le braccia, le gambe e il corpo, con l’ampia imboccatura del pezzo puntata sul fondo della schiena (un’arma più grossa e più potente dove tenevo quella più piccola, l’inutile pistola della luogotenente); sono un sacrificio su un altare sospeso, inarcato come una quantità sconosciuta, una risposta sbagliata, un bacio al fondo della pagina, come le pale di un mulino, in verità, ma senza ruotare. Sono stato in posizioni più comode, è vero, ma posso stendermi sulla canna d’acciaio per togliere peso alle gambe allargate. Le braccia, tirate indietro dalle corde, sono del tutto intorpidite e così non mi fanno più male, e gli uomini mi hanno tirato un cappotto e una coperta, di modo che non dovrei morire troppo presto. Mi hanno perfino dato da mangiare un po’ di pane e del vino.
Tutti i miei tentativi di impersonare l’uomo d’azione, l’assassinio della luogotenente e la responsabilità del tuo, mi hanno assicurato solo un giorno di vita in più, e ci sono costati tutto. L’intenzione dei soldati è di puntarmi verso il cielo, alle prime luci dell’alba, di elevarmi, disteso sul muso del cannone, mettere una carica senza granata nella culatta e poi gettare i dadi per stabilire chi tirerà la corda dello sparo.
Li ho supplicati, ho cercato di farli ragionare, ho reclamato, ma loro considerano questa morte del tutto appropriata, e non solo perché sono convinti — a ragione — che sia stato io a uccidere la luogotenente. Le mie suppliche erano troppo eloquenti, forse, il mio appello alla ragione era destinato al fallimento fin dal principio, e quanto al tentativo di rivolgermi a loro da uomo a uomo — come un poveretto ingiustamente accusato, un commilitone, un compagno di sventura — doveva essere, a quanto pare, semplicemente risibile (di sicuro loro hanno riso).