Grazie a un empio potere, in sé privo di significato, tanto insensato quanto implacabile e irresistibile, dovremmo sapere alla fine che tutto ci è ostile, e che il nostro amore muore con noi, non il contrario. (Nulla sopravvive così a lungo, così viva il nulla, così addio.)
D’altra parte, magari è proprio come dicono loro.
Ma ne dubito, e mi porterò le mie probabilità, come tutto il resto, via con me.
La notte mi punta all’angolo estremo del cono d’ombra della terra, come se mi mirasse verso il suo lembo remoto. Ah, fate del vostro peggio, idiota stella e roccia complice. E, nero uccello, fa’ ciò che era prevedibile, per quello che ho raggiunto e quello che ho lasciato, per quello che ho fatto e quello che ho trascurato, per quello che ho provato e quello che ho lasciato perdere, ciò che sono stato e che non sono stato, per ciò che importa e significa ed è meno di un mezzo pensiero in ciascuno di noi, e niente di peggio — e di sicuro niente di meglio — di questo.
Lasciami morire, lasciami andare; ho detto quello che dovevo dire, ho rifiutato di farcela, e adesso — è già l’alba? È questa una sorta di sonno, o sto sognando, o sento davvero la sveglia e l’ultimo squillo di tromba? — affronto il mio futuro, volto la schiena alla desolazione di una vita e a questi ottusi persecutori e sono giustamente innalzato, glorioso e trionfante, verso cieli del colore del sangue e delle rose, sogghigno ai dadi che rotolano (sì sì: iacta est alea, noi che stiamo per morire vi disprezziamo), rido agli applausi che si levano, tenendomi a galla, e così saluto la mia fine.