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Prendiamo i bicchieri. «A un piacevole soggiorno», dice la luogotenente brindammo. Noi sorseggiamo; lei tracanna.

«Quanto tempo pensate di stare qui da noi, più o meno?» le domando.

«Per un po’», risponde. «È da troppo tempo che siamo in giro, nei campi e nei fienili, a dormire in case mezzo bruciate e in tende umide. Abbiamo bisogno di una licenza da questa vita militare; alla lunga ti pesa.» Agita il bicchiere, e fissa il liquido. «Capisco perché avete deciso di andarvene, ma noi possiamo difendere questo posto.»

«Noi no», dico. «È proprio per questo che abbiamo scelto di partire. Possiamo farlo adesso?»

«Siete più al sicuro qui, adesso», ci spiega.

Io getto un’occhiata a te. «Però preferiremmo partire. Possiamo?»

«No», dice la luogotenente, e sospira. «Vorrei che vi fermaste.» Scrolla le spalle, si mette a esaminare la sua bella giacca. «È il mio desiderio.» Si sistema un polsino. «E il grado ha i suoi privilegi.» Mentre si guarda intorno il suo sorriso è per un attimo abbagliante. «Noi siamo vostri ospiti, e voi nostri. Noi siamo di nostra volontà vostri ospiti; se di voi si potrà dire lo stesso, dipende solo da voi.» Un’altra scrollata di spalle. «Comunque sia, intendiamo fermarci qui.»

«E se arriva qualcuno con un carro armato?»

La luogotenente scrolla di nuovo le spalle. «Allora dovremo andarcene.» Beve un altro sorso, e si sciacqua la bocca con il vino prima di inghiottirlo. «Ma non ci sono più molti carri armati in giro, di questi tempi, Abel; non c’è più molto di organizzato, dell’opposizione o del resto. Adesso la situazione è molto fluida, dopo tutta questa mobilitazione, questi arruolamenti, accuse, frizioni e…» agita in aria una mano «…questo crollo generale, direi.» Piega la testa di lato. «Quando ha visto per l’ultima volta un carro armato, Abel? O un aereo, o un elicottero?»

Rifletto per un istante, poi faccio un cenno d’assenso.

Sento che tu guardi all’insù. Mi afferri un braccio.

I saccheggiatori: i tre che i nostri irregolari hanno scoperto dentro il castello. Si sono arresi dopo pochi spari e a quanto pare la luogotenente li ha interrogati. Adesso compaiono sul tetto sopra di noi, legati, mentre avanzano verso il camminamento della torre, sulla scala a chiocciola, spinti da una mezza dozzina di uomini della luogotenente. Hanno sacchi o cappucci in testa e corde attorno al collo; inciampano e dal modo in cui camminano si direbbe che siano stati picchiati; sento singhiozzi e implorazioni che provengono da sotto i cappucci scuri. Vengono condotti verso le due torri meridionali del castello, le cui basi fiancheggiano il cancello principale, sopra il ponte e il fossato nella direzione del prato e del viale.

Hai gli occhi spalancati, il tuo volto è pallido; la mano guantata che mi afferra stringe sempre di più. La luogotenente beve, ti osserva con attenzione; nel suo sguardo c’è qualcosa di freddo e calcolatore. Poi, mentre tu tieni gli occhi fissi sulla fila di uomini al di sopra della linea di pietra che delimita il cielo, la sua faccia si anima, si distende, si rallegra perfino. «Andiamo dentro, volete?» Prende il vassoio. «Comincia a far freddo qui, e mi sembra che stia per piovere.»

Sopra di noi, mentre rientriamo, un giovane uomo grida e invoca sua madre.

La luogotenente ci confina in un’ala del castello, per impedirci di fuggire. Ceniamo dietro porte chiuse a chiave: pane e carne sotto sale. Nel salone, la nostra carceriera allieta la truppa con tutto ciò che la nostra fiorente cucina può offrire. Come era prevedibile, hanno ucciso i pavoni. Mi aspettavo dai nuovi ospiti una notte di selvaggi bagordi, ma la luogotenente — a quanto ci hanno sussurrato i nostri domestici, quando vengono, sotto scorta, a portarci la cena e a sparecchiare — ha ordinato un doppio turno di guardia, ha concesso una sola bottiglia di vino per ciascun uomo, e ha stabilito che la nostra servitù e gli accampati sul prato non vengano molestati. Forse è preoccupata di un attacco, in questa prima notte, e in più gli uomini sono esausti, non hanno la forza di festeggiare, sono animati solo da uno stanco sollievo.

Il fuoco brucia nei camini, bruciano le candele davanti agli specchi, in candelabri a molte braccia, e torce da giardino, dissotterrate da una delle costruzioni esterne, bruciano fumando appese ai muri o infilate nei vasi, in una caricatura priva di grazia del medioevo.

Nel frattempo gli sciacalli — dopo che le loro vite sono state stroncate da un nodo, e abbreviate di quella lunghezza — pendono al vento dalle torri, arenati nell’aria della sera, atroce segnale per il mondo esterno; forse la brava luogotenente spera che il loro oscillare faccia vacillare le velleità degli altri. Per tener loro compagnia, la luogotenente e i suoi uomini hanno alzato sul pennone una bandiera adatta; un piccolo scherzo, dicono. È la pelle di un carnivoro morto da molto tempo: avvistato in un corridoio abbandonato da anni, cacciato in un ripostiglio polveroso, poi messo all’angolo in un baule cigolante. Così la pelle della vecchia tigre artica sventola nell’aria agitata dalla pioggia.

Più tardi, ricaricati dal banchetto, la luogotenente e i suoi uomini più fidati scendono in quelle campagne bruciate che abbiamo lasciato, in cerca del bottino, armamenti o uomini, che riusciranno a trovare nella notte illuminata dalle torce.

TRE

Il castello ha una riserva completa di memorie, e il loro perpetuarsi è un altro modo di morire. La luogotenente perlustra la pianura nera nella notte, gli uomini che ha lasciato qui cadono addormentati uno a uno, i nostri domestici puliscono e raccolgono tutto quello che possono e poi si ritirano nelle loro stanze, e tu, su una sdraio, sotto le coperte, dormi un sonno irrequieto davanti al fuoco che si spegne. Io non riesco a dormire; cammino avanti e indietro per le tre stanze e i due brevi corridoi in cui siamo confinati, reggendo un piccolo candeliere a tre bracci per fare luce; sono ansioso e insicuro, e sposto lo sguardo dal fossato al cortile. Da una parte c’è la luna, per metà velata da nubi sfilacciate, che illumina le fradicie colline boscose dove si sta formando la nebbia. Dall’altra parte vedo la luce vibrante e incerta di una torcia da giardino che si riflette sui ciottoli del cortile e sul pozzo. Mentre la osservo, anche quella torcia manda le ultime scintille e si spegne.

Ho visto così tanti balli, qui. Ogni ballo conduceva al castello chiunque fosse degno di nota dalle contee a monte e da quelle a valle; venivano da ogni palazzo, da ogni ricca fattoria, dalle colline boscose e dalla pianura fertile, come limatura di ferro attratta da un magnete: nobili arteriosclerotici, matrone rigide come manici di scopa, amabili buffoni rubicondi che non facevano che ridacchiare, indulgenti parenti di città venuti a prendere un po’ d’aria buona in campagna o a uccidere per sport o a cercarsi una moglie, ragazzi radiosi con le facce lucide come le loro scarpe, cinici laureati venuti a deridere e a banchettare, posati osservatori della scena sociale che rinforzavano i cocktail con osservazioni taglienti, ragazzi di campagna arricchiti da poco che stringevano in mano l’invito, fanciulle appena sbocciate per metà imbarazzate e per metà fiere delle loro attrattive; politici, sacerdoti e i coraggiosi soldati; il denaro vecchio, il denaro nuovo, quelli che una volta avevano denaro, i titolati e i realizzati, gli adulatori e i timidi cerbiatti, gli assennati e i viziosi… Nel castello c’era posto per tutti.

Il salone delle feste risuonava come un teschio ronzante di pensieri in libertà, dissimili eppure identici. La musica catturava gli ospiti, li teneva nel suo pugno guantato, insieme fusi e confusi, li disperdeva lungo i corridoi illuminati, e le loro risa erano come la melodia di un sogno.