Выбрать главу

Adesso i corridoi e le stanze sono vuoti. I balconi e la merlatura sono sospesi nel buio, come appigli nel vuoto cupo. Nell’oscurità, di fronte al ricordo, il castello sembra adesso inumano. Le finestre oscurate sono una parodia della vista che non concedono più; qui c’è la spirale di pietra di una scala che scompare in un soffitto vuoto dove molto tempo fa fu abbattuta una torre, e qui stanze minuscole si aprono alla rinfusa una dopo l’altra, lasciando immaginare un camminamento, da secoli abbandonato e rimodellato, un’appendice fra gli intestini del castello.

Mi fermo davanti a un’alta finestra aperta che domina il fossato, e guardo la marea montante della nebbia che risale a inghiottire il castello, una grande e lenta onda di oscurità che spegne le stelle e si dispiega con inerzia geologica dalla foresta e si abbatte su di noi.

Ricordo che danzavamo, molti anni fa, e lasciammo il ballo per vedere la notte, insieme, sugli spalti illuminati dinnanzi all’oscurità ventosa. Il castello era una grande nave di pietra che avanzava splendente in un mare nero; la pianura brillava di luci, che vibravano nell’aria come raggi di stelle.

Noi scappammo lassù, tu e io, e poco alla volta ci trovammo a respirare l’uno il respiro dell’altra.

«Ma i nostri genitori…» sussurrasti quando quel primo bacio si spense per permetterci di prender fiato, e lo slancio per il seguente. «Ma se qualcuno ci vede…»

Il tuo vestito era qualcosa di nero; velluto e perle se ricordo bene; davanti era di broccato: ti fasciava il petto e si apriva sotto le mie mani. Esposti alla notte e alla mia bocca, i tuoi seni morbidi avevano il pallore della luna; le aureole erano scure come lividi, i capezzoli eretti, spessi e duri come l’ultima falange di un mignolo; li succhiavo e tu ti gettavi all’indietro, aggrappata alle pietre, aspirando con violenza la notte fra i denti. Poi, con un flusso inaspettato e minuscolo, sentii un gusto dolce e denso sulla lingua, come una premonizione, come un’involontaria risonanza dell’attesa emissione di un maschio, e in quella luce pallida brillavano due gocce splendenti del tuo latte, ognuna in cima a quelle piccole torri sollevate dalla pressione del sangue.

Divorai quelle perle, appagando una sete tanto più dolorosa e intensa quanto a me ignota fino a quell’istante. Poi raccogliesti tu stessa la gonna e la sottoveste, insistendo perché chiudessi col catenaccio la porta della scala a chiocciola; ti feci coricare sulle lastre d’ardesia, sotto le stelle.

È stato allora che ti ho amata per la prima volta? Credo di sì, mia dolce addormentata. O forse è accaduto più tardi, in uno stato più calmo… Ma preferirei di no; vorrei che fosse semplicemente la lussuria. Sembra più credibile, per il solo fatto che si è così indifesi davanti alle sue richieste alimentate dal sangue.

L’amore è comune; niente lo è di più, nemmeno l’odio (nemmeno adesso), e — come accade alle madri — ognuno crede che il proprio sia il migliore. Oh, il fascino dell’amore, la produttiva fissazione dell’arte per l’amore! Ah, la sbalordita chiarezza, la forza rivelatrice dell’amore, la pulsante certezza che è tutto, che è perfetto, che ci crea, che ci rende completi… che durerà per sempre.

Il nostro è un po’ particolare, per comune accordo. Siamo diventati, da tutti i punti di vista — e ce n’erano molti, e diversi, e spesso fantasiosi — famigerati; involontari, anche se indomiti, reietti molto prima del nostro fallito tentativo di diventare profughi. È stata una nostra decisione, però. Non era per noi quel fascino pacchiano, la tranquilla comodità della folla, il calore matrimoniale di una separazione condivisa. Vediamo il mondo allo stesso modo, i nostri occhi sono sintonizzati sulla sua ambivalenza, e ciò che blocca lo sguardo di un cervello ottuso, libera la mente di coloro che dispongono di una vista più ampia. Questo castello imprime il suo marchio sulla terra perché non fa più parte del mondo in cui è sorto; queste pietre si impongono sull’aria con un’aspra pretesa che è libera di raggiungere un livello più alto solo non concedendosi alcuna pace. Questo era il nostro principio; quale altro, se no?

Percorro questi corridoi mentre tu dormi accanto al fuoco spento (la cenere è come uno stagno, le pellicce e le coperte che ti scaldano sono dello stesso colore). Le nuvole scorrono in silenzio attorno a noi, umido fumo, di quale fuoco liquido non saprei dire. Una momentanea corrente d’aria porta fin qui il suono di una lontana cascata sulle colline, e solo la notte trova la sua voce finale, un rumore bianco che rimbomba nello spazio nero, privo di senso.

Il mattino trova la luogotenente di nuovo al castello; la nebbia si è diradata come una folla, la rugiada grava sulla foresta e il sole, che si leva tardi sulle colline meridionali, splende con una stanchezza invernale, esitante e provvisorio come la promessa di un politico.

La brava luogotenente si fa servire la colazione nelle nostre stanze; una vecchia bandiera — immagino non sappia che è lo stendardo della nostra famiglia — è stata stesa sul tavolo di quercia a mo’ di tovaglia. La luogotenente ha un’aria stanca ma animata, gli occhi rossi e la faccia accaldata. Puzza appena di fumo e ha intenzione di dormire per qualche ora dopo aver mangiato. La sua colazione (pano tostato, qualcosa di arrostito) viene servita sulla migliore argenteria; tiene in mano e usa le posate affilate e splendenti con la destrezza di chi è abituato a maneggiare le armi. Anche l’anello d’oro e rubino sul mignolo luccica come si deve.

«Abbiamo trovato qualcosa», risponde la luogotenente alla mia domanda su come era andata la notte. «È altrettanto importante quello che non abbiamo trovato.» Beve d’un fiato il latte, si appoggia allo schienale e scalcia lontano gli stivali. Si posa il piatto sul grembo e mette i piedi con le calze sporche sul tavolo, selezionando e infilzando i bocconi dall’alto.

«Che cosa non avete trovato?»

«Molta altra gente», ci spiega la luogotenente. «C’erano alcuni profughi accampati, ma niente… di minaccioso; nessuno armato, niente di organizzato.» Inghiotte altri bocconi dal suo piatto di carne e uova. Tiene lo sguardo sul soffitto, come se ammirasse i pannelli di legno dipinto e gli scudi con gli stemmi. «Crediamo che possa esserci in giro un altro gruppo. Da qualche parte», fa, poi stringe gli occhi mentre mi fissa. «Concorrenza», dice, facendo il suo solito sorriso freddo. «Non amici nostri.»

Un morbido rosso d’uovo, isolato chirurgicamente dal bianco che lo circonda e dalla fetta di pane dove era stato posato mediante precedenti incisioni, viene sollevato — intatto, giallo, tremolante — sulla forchetta della luogotenente e le finisce in bocca. Le labbra sottili si chiudono attorno a quella curva dorata. La luogotenente estrae la forchetta dalla bocca e la tiene dritta, facendola roteare mentre muove la mandibola e chiude gli occhi. Inghiotte. «Mmm», dice, tornando in sé e facendo schioccare le labbra. «L’ultima notizia su quell’allegra brigata li dava sulle colline più a nord.» Scrolla le spalle. «Non siamo riusciti a trovare nessuna traccia di loro; può darsi benissimo che siano andati a est con tutti gli altri.»

«Pensate sempre di fermarvi qui?»

«Oh, sì.» Posa il piatto, si asciuga le labbra su un tovagliolo e lo getta sulla tavola. «Mi piace molto la vostra casa; credo che io e i ragazzi potremo essere felici qui.»

«Intendete fermarvi a lungo?»

La luogotenente corruga la fronte e fa un respiro profondo. «Da quanto tempo», chiede, «abita qui la vostra famiglia?»

Esito. «Qualche centinaio di anni.»

Apre le braccia. «Be’, allora, che differenza fa se ci fermiamo qualche giorno, qualche settimana, qualche mese?» Scava fra due denti con un’unghia rovinata, rivolgendo a te un sorriso furbo. «Qualche anno, magari?»