«Dipende da come trattate questo posto», dico. «Questo castello resiste da più di quattrocento anni, ma per la maggior parte del tempo è stato vulnerabile ai cannoni e, adesso, potrebbe essere distrutto in un’ora con un grosso mortaio e in un secondo con una bomba ben piazzata o con un missile; dall’interno, tutto quello che occorre potrebbe essere semplicemente un fiammifero al posto giusto. Gli effetti della nostra permanenza in quanto famiglia non hanno purtroppo alcuna relazione con quelli della vostra in quanto occupanti, specialmente considerando il mondo e le circostanze al di fuori di queste mura.»
La luogotenente annuisce con gravità. «Ha ragione, Abel», dice, strofinandosi un indice sotto il naso e fissandosi le calze grigie e macchiate. «Siamo qui come occupanti, non come ospiti, e voi siete nostri prigionieri, non i padroni di casa. E questo posto corrisponde alle nostre esigenze; è comodo, facile da difendere, ma per il resto non ha nessun significato per noi.» Afferra di nuovo la forchetta e la esamina con attenzione. «Ma i miei uomini non sono vandali. Ho detto loro di non distruggere assolutamente niente, e se dovesse accadere qualcosa del genere sarebbe per goffaggine più che per insubordinazione. Oh, c’è qualche buco di pallottola qua e là, ma la maggior parte dei danni che troverete sono stati causati dai saccheggiatori, non da noi.» Pulisce qualcosa dai rebbi della forchetta. «E gliel’abbiamo fatta pagare cara, la loro… disgustosa profanazione.» Mi sorride.
Io fisso te, mia cara, ma adesso tieni lo sguardo a terra. «E noi?» chiedo alla nostra luogotenente. «Come intendete trattare noi?»
«Lei e sua moglie?» dice, poi osserva con attenzione. Io non mostro, lo spero, nessun segno di reazione. Tu guardi lontano, verso la finestra. «Oh, con rispetto», continua la luogotenente, annuendo seria. «Anzi, con onore.»
«Ma non al punto di onorare il nostro desiderio di partire.»
«Giusto!» dice. «Voi siete i miei esperti del luogo, Abel. Sapete come muovervi da queste parti.» Fa girare la mano, comprendendo nel gesto l’intero castello. «E io ho sempre avuto un debole per i castelli; potete offrirmi una visita guidata, se ne avete voglia. Be’, siamo sinceri: se io ne ho voglia. E ne ho voglia. Non le dispiace, vero, Abel? No, naturalmente no. Sono sicura che anche per lei sarà un piacere. Sono sicura che lei conosce chissà quante storie interessanti su questo castello: antenati affascinanti, famosi visitatori, episodi emozionanti, cimeli esotici di terre lontane… Ah! Per quanto ne so io, il castello potrebbe avere persino un fantasma!» Si sporge in avanti, agitando la forchetta come una bacchetta. «Ce l’ha, Abel? C’è un fantasma in questo posto?»
Io cerco di allontanarmi, appoggiandomi allo schienale. «Non ancora.»
Questo la fa ridere. «Appunto. I vostri veri tesori sono cose a cui i ladri non erano interessati: la casa in sé, la sua storia, la biblioteca, gli arazzi, antiche casse, vecchi abiti, statue, grandi quadri cupi… tutto ancora intatto, quasi tutto. Magari mentre stiamo qui lei potrebbe educare i miei soldati, trasmettergli il gusto della cultura. Sono sicura che il mio senso artistico è già cresciuto, semplicemente stando qui a parlare con lei.» Sbatte la forchetta contro il vassoio. «È questo il punto, capisce: gente come me ha così poche possibilità di parlare con una persona come lei e stare in un posto simile.»
Annuisco lentamente. «Sì, e lei sa chi sono io, chi siamo noi; ci sono libri nella biblioteca che elencano le generazioni della mia famiglia, e ritratti di quasi tutti gli antenati alle pareti; ma noi non sappiamo chi è lei. Possiamo chiederglielo?» Do un’occhiata dalla tua parte; hai di nuovo gli occhi fissi sulla luogotenente. «Basterebbe anche solo un nome», le dico.
La luogotenente si strofina contro lo schienale, stirandosi le spalle, inarcando la schiena e reprimendo gran parte di uno sbadiglio. «Naturalmente», dice, unendo le mani e premendole una contro l’altra. «Quello che non è facile da capire, finché non si entra a farne parte, è l’importanza che le unità di prima linea — le bande, le squadre — danno ai soprannomi. Ci lasciamo alle spalle il nostro nome da civili, insieme alla nostra vecchia personalità; diventiamo un’altra persona, dopo l’addestramento. Magari è una cosa sciamanica, una specie di incantesimo, di portafortuna.» Sorride. «Mi spiego: la pallottola con il proprio nome avrebbe scritto sopra il nome da civile, non quello vero, quello con cui ci chiamano i compagni.» Sbuffa. «Sa che ho dimenticato i veri nomi di tutti gli uomini di questa squadra? Con alcuni di loro sono insieme da due anni, e sembra un sacco di tempo, date le circostanze, no?» Annuisce. «Ma, i loro nomi… Be’, c’è Mister Taglio…»
«In che senso?» dico.
Lei mi guarda con un’aria strana, poi continua. «È una specie di vice; era sergente, nel suo vecchio reparto. Poi c’è Ricciolo, Morte, Vittima, Karma, Stecco, Rotula, Verbale, Fantasma… ah!» sorride all’improvviso. «Vede, ce l’abbiamo già un fantasma!» Si sporge in avanti, elencando i nomi mentre conta sulle dita. «…Fantasma, Eros, Paraurti, Discarica, Grugnito, Foglialarga, Poppy, Fissato, Doppel, Psycho… e… e… sono tutti qui», dice appoggiandosi allo schienale, silenziosa, incrociando le braccia e le gambe. «C’era Mezzacasta, ma ormai è morto.»
«Era il ragazzo di ieri, sulla strada?»
«Sì», dice velocemente. Poi tace per un istante. «Sa qual è la cosa strana?» Mi fissa. Io la osservo. «Mi è venuto in mente il vero nome di Mezzacasta, il suo vecchio nome, il nome da civile, quando l’ho baciato.» Un altro momento di pausa. «Si chiamava… Be’, adesso non ha più importanza.»
«E poi l’ha ammazzato.»
La luogotenente mi fissa a lungo. Ho costretto molti uomini ad abbassare lo sguardo, ma quei freddi globi grigi stanno per farmi cedere. Alla fine dice: «Lei crede in Dio, Abel?»
«No.»
La luogotenente si produce in uno dei suoi sorrisi di minor calibro. «Allora si limiti a desiderare di non trovarsi a morire di una ferita alla pancia quando non c’è nessuno vicino armato di qualcosa di meglio di un cerotto e di analgesici per una media emicrania. O nessuno disposto a mettere fine alla sua agonia.»
«Non avete un medico?»
«L’avevamo. È stato colpito da una scheggia di shrapnel di mortaio due settimane fa. Si chiamava Vet», dice, sbadigliando di nuovo. «Vet», ripete, e si mette le braccia dietro la testa, come per arrendersi (la sua giacca colorata si apre e, all’interno della camicia militare, i seni premono per un istante all’infuori; sospetto che siano, come lei, fermissimi). «Vet non nel senso di veterano. Nel senso di veterinario. D’altra parte, si prende quello che c’è, no?»
«Allora, per finire, come dovremmo chiamarla?» le chiedo, tentando di approfittare di quest’istante di terribile sentimentalismo.
«Davvero vuole saperlo?»
Faccio cenno di sì con la testa.
«Lu», mi dice, quasi timida. Scrolla di nuovo le spalle. «Dopo un po’, Abel, uno diventa la propria funzione. Io sono la luogotenente, così mi chiamano Lu. Sono diventata Lu. È a questo nome che rispondo.»
«E prima?»
«Prima?»
«Come la chiamavano prima?»
Lei scrolla la testa, sbuffa. «Facile.»
«Facile?»
«Già. Ripetevo sempre ‘Facile, adesso’. Poi è stato abbreviato.» Si osserva le unghie. «Le sarò grata se non userà questo nome.»
«Certo. Le battute che suggerisce sarebbero… be’, eponime.»
La luogotenente mi osserva stringendo per un momento gli occhi, poi dice «Proprio così». Sbadiglia, quindi si alza in piedi. «E adesso vado a dormire», annuncia, stirandosi le braccia. Si curva a raccogliere gli stivali. «Pensavo che potremmo — tutti e tre — fare una passeggiata, più tardi, sulle colline», dice. «Magari andare un po’ a caccia, questo pomeriggio.» Mi passa accanto e mi batte una mano sulla spalla. «Voi due, consideratevi a casa vostra.»