QUATTRO
Temo di essere stato favorevolmente impressionato dalla nostra luogotenente. Ha la grazia di una pietra grezza, e trovo ininfluente la sua mancanza di bellezza (proprio come la considera lei, con intenzione). Non mi piacciono le persone che si premurano di farmi notare i loro difetti.
Ti alzi in piedi e giri intorno al tavolo, stirando le pieghe della bandiera mentre ti avvicini, poi ti fermi dietro di me, posi le mani sulle mie spalle, e premi con delicatezza. Mi lascio massaggiare per un po’ i muscoli affaticati, e il mio corpo ondeggia appena, la testa si muove lentamente avanti e indietro. Credo davvero che il sonno stia finalmente arrivando; i miei occhi sono semichiusi, e metto confusamente a fuoco la superficie della nostra bandiera, stesa sul tavolo. Noto sparse tracce di fango secco, un ricordo della pianura che dobbiamo alla cortesia degli stivali della luogotenente. Senza dubbio le nostre stanze, i corridoi e i tappeti saranno ormai schizzati di questa terra. Attraverso il velo confuso delle ciglia degli occhi semichiusi, il mio sguardo si fissa su quella polvere incrostata che chiazza i nostri colori, e mi torna in mente il nostro secondo appuntamento.
Una volta ti gettai su questa stessa bandiera, anche se non su questo tavolo, non in questa stanza. Più in alto di qui: una vecchia soffitta, polverosa e calda per i raggi di sole che aveva assorbito, dall’altra parte di quelle lastre d’ardesia che avevamo usato come sostegno del nostro piacere la notte precedente. Vi eravamo scivolati dentro mentre gli altri presenti alla festa, per riprendersi dall’eccitazione della notte, pranzavano sul prato o affondavano l’emicrania in un bagno. Ti volevo all’istante — il mio desiderio era stato attizzato e poi soffocato, arginato per il resto di quella notte dapprima dalla tua preoccupazione, fin troppo assennata, che la nostra assenza venisse notata, e poi dalle sistemazioni notturne, che prevedevano che ognuno di noi dovesse dividere la stanza con altri parenti — ma tu eri restia, in nome di una riconquistata timidezza.
E così, come i bambini che non eravamo più, ci mettemmo a esaminare vecchi bauli, scatole, casse, e il nostro pretesto dichiarato era all’improvviso divenuto reale. Trovammo vecchi vestiti, tessuti bucati dalle tarme, antiche uniformi, armi arrugginite, scatole vuote, interi cassoni di pesanti dischi di vinile, urne, coppe e vasi dimenticati e un centinaio di altri cimeli scartati della nostra storia, antica e recente, risaliti alla superficie come detriti leggeri fra le turbinanti correnti della fluida vitalità del castello, depositati sulla sua sommità polverosa e inutilizzata, come i polverosi ricordi nella testa di un vecchio.
Ci provammo alcuni vecchi vestiti; io brandivo una spada macchiata dal tempo. La bandiera, estratta da un baule, faceva da tappeto per le scarpe e gli abiti che ci eravamo tolti e poi — quando finalmente, dopo aver preso coraggio, ti avevo tolto altri vestiti, ti avevo aiutata ad addobbarti, lasciando indugiare le mani e le dita sul tuo corpo, e poi baciandoti — era diventata il nostro letto.
Nella calma arida di quel luogo buio e abbandonato, la nostra passione prese a scuotere la bandiera, scompigliandola e sgualcendola come se fosse stata esposta a una lenta tempesta, finché non la inumidii con una rada pioggia più preziosa di quella che avrebbero mai potuto offrire i venti e le nubi.
Mi tornarono alla mente quelle perle di luna offerte alla notte precedente, ed era come se fossero tornate allora sulla bandiera, un memento sopra uno stemma cucito e spiegazzato, con spade e una bestia rampante della mitologia.
Mi avevi lentamente prosciugato; il nostro piacere divenne dolore e scoprii che soffrivi in silenzio, e urlavi — sottovoce, roca, a scatti — di pura felicità. Alla fine cademmo addormentati, l’uno nelle braccia dell’altra, sullo stemma della nostra famiglia.
Il tuo riposo era simile al tuo piacere: dormivi con un occhio semiaperto, sopra uno scolorito unicorno ricamato. Dormimmo per un’ora, poi ci rivestimmo e — per fortuna senza essere visti — scendemmo e ci separammo, tu per fare un bagno e io verso una passeggiata sulle colline che, più tardi, fingemmo entrambi che avessi cominciato molto prima.
Continui a massaggiarmi le spalle, ad accarezzarmi il collo, a premere sulla mia nuca. Il mio sguardo resta fisso sul fango lasciato dagli stivali della luogotenente. Quando ero giovane, quando ero ancora un bambino — e tu eri lontana, separata da me per via di quella disputa familiare che la nostra unione cercava in qualche modo di sanare — ricordo che odiavo il fango e la terra e la sporcizia più di qualsiasi altra cosa. Mi lavavo le mani dopo il minimo contatto con ciò che ritenevo sporco, fuggendo da ogni gioco all’aperto per sciacquare sotto il più vicino rubinetto ciò che non era altro che semplice terra, quasi fossi terrorizzato dall’idea di essere contaminato dalle cose terrene.
La colpa, naturalmente, era della mamma, una donna di città; quell’eccesso di schizzinosità che lei favoriva aveva avuto effetti negativi su quei primi anni, dato che attirava sul mio capo una cascata di insulti da parte di amici, compagni e parenti più sudici di tutto quello che avrei mai potuto raccogliere in un parco.
Era una sorta di orrore per ciò che è ordinario; qualcosa che nostra madre credeva fosse radicato nei geni sia della nostra classe sia in particolare della nostra famiglia, eppure in maniera ancora insufficiente, se considerato attraverso i suoi severissimi criteri; qualcosa che doveva essere ribadito, nutrito, educato, come un fiore coltivato con cura o un purosangue ben allevato.
Quella pulizia fanatica era il simbolo della mia adorazione per la mamma, e il riconoscimento, l’espressione della nostra superiorità sui sottoposti. La mamma era sbigottita davanti al fallimento della sua opera di apostolato, su questo principio, nei confronti dei nostri pari. Conoscevo persone come noi — come noi di ottima famiglia, di antichissima stirpe, e dotati di immense proprietà — che, agli occhi di nostra madre, tralignavano completamente dal loro grado vivendo con la stessa miseria — o piuttosto nello stesso sudiciume — di qualunque contadino senza scarpe, con un pavimento di terra battuta e nessun cambio d’abito. Conoscevo proprietari di mezza contea che usualmente raccoglievano sotto le unghie più terra di quanta la mamma riteneva accettabile per una cassetta di fiori, uomini il cui alito, il cui corpo puzzavano talmente che era possibile riconoscere il loro odore in una stanza dopo mezza giornata che ne erano usciti, e che, tranne in occasioni specialissime, indossavano vestiti così lerci e sbrindellati che a ogni nuovo domestico appena assunto occorreva spiegare con cura che, nel caso fossero entrati in contatto con quegli stracci nelle rare occasioni in cui non si trovavano addosso ai loro proprietari, non dovevano raccoglierli fra pollice e indice né, tenendoli a distanza, gettarli al più presto nel fuoco o nel bidone della spazzatura più vicini.
Nostra madre osservava con disgusto tali trasandatezze. Naturalmente era facile vivere senza regole se non c’era nessuno a costringerti a fare diversamente e se uno possedeva una rendita indipendente da qualsiasi autorizzazione sanitaria esterna, ma proprio quello era il punto: i poveri avevano una scusa per la propria sporcizia, mentre i ricchi, i nobili no, e mostrarsi felici di vivere in condizioni che avrebbero indignato un maiale era un insulto sia per quelli come nostra madre che si mantenevano fedeli al principio dell’igiene immacolata, sia, in fondo, anche per i meno fortunati.
I miei pensieri in materia coincidevano perfettamente con quelli della mamma; erano l’immagine riflessa dei suoi, e rimasi un devoto discepolo fino a un giorno d’inizio primavera, all’età di nove anni. Ero solo nel bosco a nord del castello. Avevo litigato con la mamma e il precettore, e appena finite le lezioni della giornata mi ero precipitato fuori di casa, senza notare che da ovest avanzavano nubi cariche di pioggia. Il vento mi sorprese sotto gli alberi ancora spogli: un tumulto scosse le cime, e solo allora mi voltai per tornare al castello, stringendomi nel soprabito leggero, cercando nelle tasche i guanti che non c’erano. Poi venne la pioggia, un gelido fuoco di fila che oltrepassava i rami nudi, dove le prime gemme brillanti interrompevano la bruna monotonia della corteccia. Maledissi la mamma, e il mio precettore. Maledissi me stesso, per aver prestato così poca attenzione al tempo e per non essermi assicurato di avere berretto e guanti con me. Il soprabito — il più elegante che avevo, un’altra sciocchezza causata dalla rabbia e dalla fretta — continuava a impigliarsi nei rami mentre avanzavo verso casa. Le scarpe, lucide fino a risplendere, ormai erano graffiate e schizzate di terra. Maledissi gli alberi che mi ghermivano, l’intera foresta strepitante, le stesse colline, simili a enormi escrementi, e il cielo nero che vomitava pioggia (anche se i termini che usavo, va detto, avrebbero semplicemente fatto aggrottare le sopracciglia della mamma: credevo, come lei, nell’obbligo di non insozzare non solo la pelle ma anche la bocca).