Più perfetta come coreografia anche della famosa apertura delle Olimpiadi di Barcellona.
Ormai il calcio in Italia è solo la curva.
Questa benedetta curva che lo fa sopravvivere nel tempo.
Le società di calcio, i giornali sportivi usano biecamente i teppisti per tenere in vita un grande affare soprattutto televisivo.
E i veri provocatori non sono i curvisti ma i giornalisti sportivi, i vari appelli del martedì e i processi del lunedì.
Nel lessico dei resoconti sportivi il calciatore ormai è un gladiatore.
Si parla di assedio, di lotte, di battaglie.
Si è perso di vista il vero senso della cosa, cioè il gioco, il puro divertimento, la divagazione.
Il calcio è diventato grazie ai toni esasperati di voi giornalisti l'unico motivo di faide tra bande rivali.
Notate che, ben lontani dallo stadio, i tifosi fiorentini aspettano alla stazione Rifredi il treno dei bolognesi, e l'attaccano con le bombe molotov.
A Milano le bande interiste accoltellano un tifoso della Roma dopo averlo, pensateci bene eh, braccato in città per quattro ore.
I nomi delle tribù rivali sono: Squadre della morte, Commandos tigre, Fossa dei leoni.
E le svastiche abbondano nelle loro bandiere.
E i giocatori? Loro in campo svolgono un ruolo solamente simbolico, eseguono un tragico balletto isterico: simulano capitomboli, violenze non subite, dolori insopportabili, scatenando le tigri sulle gradinate.
I gladiatori ai tempi di Roma imperiale erano giù nell'arena e si ammazzavano con le reti e i tridenti. Ora le parti si sono paradossalmente invertite, i gladiatori veri stanno sulle curve e si uccidono purtroppo lo stesso.
Noi ci ostiniamo ipocritamente a chiamarli i soliti isolati teppisti, in realtà li usiamo per alzare l'audience televisiva e vendere i giornali.
Ma sui motivi profondi di questa violenza voglio continuare a parlarvi un'altra volta.
Per oggi basta.
Con tanti saluti e abbracci a tutti.
P.S.
Per pietà, però, voi che potete, non lasciatemi morire da solo con la faccia contro il televisore.
Violenza negli stadi
Cari fratelli della Grande Sinistra, la violenza negli stadi è l'argomento prelibato di tutti i novantesimi minuti, i processi del lunedì, gli appelli del martedì.
Puntualmente ogni rubrica sportiva domenicale comincia con un cupissimo purtroppo gravi incidenti dovuti ai soliti isolati teppisti hanno disturbato la giornata calcistica.
Questo preoccupante fenomeno viene liquidato con finta inquietudine perché la cosa ci provoca solo un senso di disturbo, ma in realtà non ci tocca realmente.
Noi ci vogliamo ingannare quando diciamo che sono solo pochi e isolati: in realtà sono molti, bene organizzati e forse anche aiutati dalle società stesse.
Questa rabbia è l'espressione di un malessere che investe tutta la popolazione giovanile e dovrebbe farci seriamente meditare che la malattia è epidemica e si diffonde non nei paesi terzomondisti o nel Sud povero del nostro paese, ma in quasi tutti quei paesi del Nord europeo dove il benessere è più elevato e dove, come in Inghilterra e in Germania, il senso del sociale è più radicato.
Quindi quanto più alto è il benessere tanto più crescono e si diffondono quei pochi e isolati teppisti e vale quindi questa strana equazione: più un paese è ricco più la violenza si diffonde in maniera violenta tra la popolazione giovanile che si sente esclusa dalla gran festa consumistica.
E poi, cari fratelli, anche se fossero pochi e isolati, che facciamo, non ce ne vogliamo occupare? Vogliamo usare su loro, con le scuse che sono naziskin, quei sistemi hitleriani che loro adorano tanto? Perché tutto questo succede? E perché nei paesi dove la cultura è più avanzata? La rivoluzione culturale degli anni Sessanta da Berkeley si è allargata a macchia d'olio in tutta l'America invadendo anche l'Europa e ha seminato un principio fondamentale di matrice assolutamente cattolica: la parità vale per tutti, non solo gli uomini normali, ma anche i diversi e gli emarginati in genere.
Ma che cosa è rimasto di quella ormai lontana rivoluzione? Si è persa la fiducia nei valori della vecchia morale, delle leggi della religione e di tutti i punti di riferimento che avevamo ancora negli anni Cinquanta.
Ora i pochi isolati teppisti sono solo la punta dell'iceberg dello scontento giovanile, cioè di tutti quelli che non riescono a emergere.
Vedete, la nuova religione capitalistica atea nella quale crediamo ciecamente, ha invertito i vecchi valori come la vita è una valle di lacrime in attesa del paradiso.
La felicità, o te la conquisti qui con ogni mezzo anche violando la vecchia morale, anzi soprattutto violando la vecchia morale, o la fallisci: e la felicità è l'obiettivo fondamentale della vita.
D'accordo, la cultura consumistica ha imposto valori surrogati, si confonde felicità con avere, che felicità certo non è, ma il nuovo unico comandamento è proprio questo: se vuoi essere felice, devi avere.
E il tuo avere è quindi il tuo potere, lo devi anche esibire, perché la nostra è la cultura dell'immagine, la felicità esiste se la esibisci, la mostri, perché se non appare è come se non ci fosse. Quindi non basta essere felici ma bisogna anche essere riconosciuti come tali.
Una sensazione gradevolissima e inebriante di questa religione è quindi quella di essere invidiato: chi è invidiato è in testa alla corsa, ha successo, è felice, è in paradiso.
Le etichette più invidiabili sono attore, calciatore, sarto, uomo politico, capomafia, santo, tangentista, pornostar, purché di grande successo.
La tivù, i giornali specializzati e anche quelli non specializzati, parlano solo di loro, dei loro amori, dei loro viaggi, delle loro case, dei loro gusti, delle loro amicizie altolocate, dei loro molti vizi. Insomma sono i protagonisti assoluti del a festa, hanno tutti un grado alto nella gerarchia sociale: Sgarbi, l'Avvocato, la Marzotto, Arbore, la Parietti, De Michelis, Montezemolo, Maradona, il Papa, Marina Ripa di Meana, Moana, Vialli, Berlusconi e Baggio, e mi scuso con quanti posso aver dimenticato.
E tutti quelli che non ce la fanno, e sono in molti? Ecco il punto.
Di che vivono? Come essere riconoscibili, e quindi felici? Attenzione, la nuova religione impone di raggiungere il risultato senza badare ai mezzi: bisogna andare alla Mecca, per ottenere una fetta di paradiso. Ma in un mondo ossessionato dal bisogno di essere considerati felici, in un mondo di presenzialismo e di celebrità, dei non emergenti non si parla mai, mai una parola, niente di niente, nessuno si accorge di loro, è come se non ci fossero; e loro, che invece ci sono e, per di più, carichi di problemi e di risentimento, temono di avere una curiosissima, dolorosa malattia: quella di essere invisibili.
Perché ci si accorga di loro, si parli di loro, si aggregano in bande come a New York negli anni Cinquanta, in club di picchiatori calcistici o politici, tutti con nomi allarmanti, naziskin, Fossa dei leoni, Brigate rossonere, Pattuglie della morte, che — a un livello culturale bassissimo — sfogano le loro tensioni sulle glorie sportive o politiche, e ne fanno l'unico motivo della loro vita.
Sport e razzismo
La polizia addirittura li va a prendere alla stazione d'arrivo e li scorta fino agli stadi nelle loro fosse, e li riaccompagna poi nei loro treni, poi nei loro ghetti, come belve feroci.
Naturalmente loro sfasciano tutto anche quando vincono, perché il loro risentimento non nasce da una presunta ingiusta sconfitta, ma da quella vera continua ingiustizia che subiscono tutti i giorni della vita.
Vogliono lasciare una testimonianza, un segno tangibile del loro risentimento, del a loro presenza, vogliono essere visibili.