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— Come si chiama? — chiese l’uomo. Alis glielo disse. Ogni tanto lui la guardava mentre camminavano, e aggrottava la fronte. Aveva una faccia sciupata per la sua età, e una piccola cicatrice vicino alla bocca. Sembrava più vecchio di lei. Il modo in cui la guardava la metteva a disagio, ma decise di accettarlo… di sopportare qualunque cosa pur di avere accanto quell’unica presenza solida. D’impulso, gli insinuò la mano nell’incavo del gomito, strinse le dita sulla pelle logora. L’uomo la lasciò fare.

E dopo un po’ le passò il braccio intorno alla vita, e proseguirono camminando come due innamorati.

GUERRA, gridava il titolo del giornale, all’edicola.

L’uomo fece per svoltare in una strada, all’angolo del Tenny’s Hardware. Alis esitò, quando vide quello che c’era là. L’uomo si fermò appena se ne rese conto, si girò verso di lei, voltando le spalle agli edifici che bruciavano.

— Non vada là — disse Alis.

— Dove vuole andare?

Lei alzò le spalle, rassegnata, indicò la strada principale.

Allora l’uomo incominciò a parlarle, come se fosse una bambina, per placare le sue paure. Lo faceva per pietà. Certuni la trattavano così. Lei se ne accorse e accettò anche quello.

Si chiamava Jim. Era venuto in città il giorno prima, facendo l’autostop. Cercava lavoro. Non conosceva nessuno. Alis ascoltò la sua loquacità impacciata. Quando lui ebbe finito, continuò a fissarlo, e vide la sua faccia contrarsi in un’espressione di sgomento.

— Non sono pazza — disse Alis, ed era una menzogna, perché a Sudbury tutti sapevano, ma lui non sapeva perché non conosceva nessuno. Il viso era vero e solido, e la piccola cicatrice accanto alla bocca lo rendeva più duro, quando rifletteva; in un altro momento Alis avrebbe avuto paura di lui. Ora aveva paura soltanto di perderla tra i fantasmi.

— È la guerra — disse lui.

Alis annuì, sforzandosi di guardare l’uomo e non gli incendi. Jim le toccò il braccio, gentilmente. — È la guerra — ripeté. — È tutto pazzesco. Sono impazziti tutti.

E poi le posò la mano sulla spalla, e la fece voltare nell’altra direzione, verso il parco dove le foglie verdi ondeggiavano sopra i rami neri e scheletriti. Passeggiarono lungo il laghetto, e per la prima volta dopo molto tempo lei respirò liberamente e si sentì accanto una presenza reale e razionale.

Comprarono il pop-corn e sedettero sull’erba in riva al lago e lo gettarono ai cigni spettrali. I fantasmi dei passanti erano pochi, quei tanti che bastavano per mantenere un senso di frequentazione in quel luogo… quasi tutti anziani che facevano le solite cose con voluta tranquillità nonostante i titoli dei giornali.

— Li vede? — si azzardò finalmente a chiedere Alis. — Tutti rarefatti e grigi?

Jim non capì, non la prese alla lettera, e alzò le spalle. Per prudenza, Alis non insistette. Si alzò e guardò l’orizzonte, dove il fumo si sollevava nel vento.

— Posso invitarti a cena? — chiese lui.

Alis si voltò, preparata, e riuscì a rispondere con un sorriso timido e disperato. — Sì, — disse. Sapeva che altro intendeva pagarsi, lui, oltre alla cena… ed era disposta ad accettare, e si detestava per questo, e aveva una paura disperata che lui se ne andasse, quella sera, l’indomani. Non conosceva gli uomini. Non sapeva cosa poteva dire o fare per impedire che se ne andasse: sapeva soltanto che un giorno se ne sarebbe andato, quando si fosse accorto che era pazza.

Persino i suoi genitori non ce l’avevano fatta a sopportarla… all’inizio erano andati a trovarla negli ospedali, e poi c’erano andati soltanto i giorni festivi, e poi non s’erano più fatti vedere. Alis non sapeva dove fossero.

Un ragazzetto del vicinato era morto annegato. Lei l’aveva detto, che sarebbe annegato. L’aveva gridato. E tutti, in città, avevano detto che era stata lei a spingerlo.

Pazza Alis.

È affetta da fantasie, dicevano i medici. Non è pericolosa.

— L’avevano lasciata andare. C’erano scuole speciali, scuole dello stato.

E di tanto in tanto… gli ospedali.

I tranquillanti.

Alis aveva lasciato a casa le compresse rosse. Quando se ne accorse, le sudarono le palme delle mani. Quelle compresse portavano il sonno. Bloccavano i sogni. Strinse le labbra per dominare il panico e decise che non ne aveva bisogno… non ne avrebbe avuto bisogno perché non era sola. Passò la mano sotto il braccio di Jim e camminò al suo fianco, sicura e stranita, su per i gradini che portavano dal parco alle strade.

Si fermò.

I fuochi erano spenti.

Gli edifici spettrali s’innalzavano sopra i loro gusci schiantati e privi di finestre. I fantasmi si muovevano tra le masse delle macerie, e a volte erano quasi invisibili. Jim cercò di sospingerla, ma lei vacillò; la guardò in modo strano, allora, e la cinse con un braccio.

— Tremi — le disse. — Hai freddo?

Alis scosse la testa, cercò di sorridere. I fuochi erano spenti. Si sforzò d’interpretarlo come un buon auspicio. L’incubo era finito. Alzò lo sguardo verso quel viso solido e preoccupato, e il suo sorriso divenne quasi una risata folle.

— Ho fame — disse.

Indugiarono lungamente a cena da Graben’s… lui con la giacca sciupata, lei con il maglione sformato; gli avventori spettrali vestivano molto meglio, e li fissavano; i camerieri li avevano fatti sedere in un angolo vicino alla porta, dov’erano meno visibili. C’erano cristalli incrinati e piatti rotti sui tavoli incorporei, e le stelle ammiccavano fredde nello squarcio sopra lo scintillio pallido dei lampadari spezzati.

Rovine: fredde, pacifiche rovine.

Alis si guardò intorno, calma. Si poteva vivere tra le rovine, purché i fuochi non ci fossero più.

E c’era Jim che le sorrideva senza un’aria di pietà, ma solo con un’aria di disperazione un po’ folle che lei capiva… Jim che stava spendendo da Graben’s più di quanto poteva permettersi, in quel ristorante che lei non aveva mai sperato di vedere all’interno… Jim che le diceva, prevedibilmente, che era bella. L’avevano detto anche altri. Alis provava un vago risentimento nel sentire quelle parole banali da lui… lui, di cui aveva deciso di fidarsi. Gli sorrise con tristezza, quando Jim lo disse, e poi aggrottò la fronte e quindi, temendo di offenderlo con le sue malinconie, sorrise di nuovo.

Pazza Alis. Lui l’avrebbe scoperto e se ne sarebbe andato quella notte stessa, se non fosse stata prudente. Cercò di fingersi allegra, si sforzò di ridere.

E poi nel ristorante la musica s’interruppe, e gli altri avventori smisero di colpo di parlare, e l’altoparlante diede un annuncio vano.

Ai rifugi… ai rifugi… ai rifugi.

Grida. Urla. Sedie rovesciate.

Alis si abbandonò inerte sulla seggiola, sentì la mano fredda e solida di Jim afferrare la sua, vide la faccia spaventata, la bocca che si muoveva chiamandola per nome. Lui la prese fra le braccia, la tirò a sé e si mise a correre.

Fuori l’aria fredda la investì, ed Alis vide di nuovo le rovine, le figure fantasma correvano verso il caos dove gli incendi erano stati più furiosi.

E comprese.

— No! — gridò, tirandogli il braccio. — No! — ripeté, mentre la gente appena intravvista passava intorno a loro e li urtava, in una fuga verso l’annientamento. Jim cedette alla sua certezza improvvisa, le strinse la mano e fuggì con lei controcorrente, mentre le sirene ululavano all’impazzata nella notte… fuggì con lei mentre correva lungo il percorso conosciuto tra le rovine.

Entrarono da Kingsley’s, dove i tavoli erano abbandonati, i piatti dimenticati, le porte socchiuse, le sedie rovesciate. Entrarono nella cucina e scesero nelle cantine, al buio e al freddo, al sicuro dalle fiamme.

Nessun altro li raggiunse. Finalmente la terra tremò, troppo profondamente perché si udisse un suono. Le sirene tacquero e non si fecero più sentire.