— Perché non me l'hai detto…
— A che scopo?
Ma non c'era risposta. Si tranquillizzò, ma lui sentì la sua angoscia repressa, febbrile. Durante la notte peggiorò e al mattino stava malissimo. Non riuscì a mandar giù neppure un boccone e, benché divorata dalla sete, il suo stomaco non tollerava il sangue di coniglio, l'unica cosa che riuscì a procurarle. Cercò di metterla più comoda che poteva, poi, prendendo le borracce vuote, andò in cerca d'acqua.
Erba, miglia e ancora miglia di erba, tagliente, disseminata di fiori multicolori, poi arbusti spinosi che dondolavano leggermente, fino a dove il cielo si confondeva con la terra splendente e nebbioso per la distanza. Il sole brillava caldo; da terra si levavano cantando le allodole del deserto. Falk procedeva ad andatura sostenuta, dapprima fiducioso, poi con determinazione, compiendo una lunga curva verso nord e a est del loro campo. Le piogge della settimana precedente si erano già perse nelle viscere della terra e non c'era nemmeno un rivolo. Non c'era assolutamente acqua. Dovette procedere a lungo, spingendosi a ovest nel campo. Ripiegando da est sulla via del ritorno scrutava ansiosamente in cerca del campo quando vide qualcosa da un ampio altipiano a miglia di distanza verso ovest, una massa indistinta, uno scuro movimento che potevano essere alberi. Un attimo dopo scorgeva nei pressi il fuoco del campo: una corsa a balzi, benché stanco e col sole al tramonto che gli martellava gli occhi col suo bagliore e una bocca che pareva di gesso.
Estrel aveva tenuto il fuoco acceso per indicargli la via del ritorno. Era distesa lì accanto nel logoro sacco a pelo. Quand'egli arrivò non alzò nemmeno la testa.
— Ci sono alberi non troppo lontano da qui verso ovest; ci sarà dell'acqua. Questa mattina ho fatto un percorso sbagliato — disse. Riunì le loro cose e preparò i fagotti. Dovette aiutarla ad alzarsi; le prese il braccio e s'avviarono. Si trascinò al suo fianco per un miglio, poi un altro, curva, con uno sguardo spento. Giunsero a uno dei tondi rigonfiamenti del terreno — Ecco — disse Falk. — Lì vedi? Sono alberi, perciò ci deve essere acqua.
Ma Estrel era caduta sulle ginocchia, poi s'era coricata sul fianco nell'erba, piegata dal dolore, con gli occhi chiusi. Non riuscì più a muovere un passo.
— Si tratta di due o tre miglia al massimo, mi pare. Faccio un bel falò qui e tu riposi; io riempio le borracce e ritorno subito; sono certo che c'è acqua e non ci metterò molto. — Rimase immobile mentre lui raccoglieva tutti gli sterpi che poteva, accendeva il fuoco e ammucchiava dell'altra legna verde perché lei potesse alimentarlo facendo fumo. — Torno presto — le disse e si allontanò. Lei balzò a sedere pallida e tremante, urlando: — No, non lasciarmi! Non puoi lasciarmi sola, non andare…
Non volle intender ragione. Stava molto male ed era terrorizzata oltre il limite del possibile. A Falk non fu possibile lasciarla lì, mentre si faceva notte; forse avrebbe dovuto, ma non gli sembrò il caso. La sollevò, le passò il braccio dietro le spalle, e mezzo tirandola, mezzo portandola, si incamminarono.
Al successivo rigonfiamento del terreno vide di nuovo gli alberi, per nulla più vicini. Il sole tramontava lontano, davanti a loro, con un bagliore dorato sopra la sterminata distesa di terra. La teneva in braccio, adesso, e ogni minuto doveva fermarsi, posarla, e sedersi accanto a lei a tirare il fiato per riprender forza. Gli pareva che se solo avesse avuto un po' d'acqua, tanto per inumidirsi le labbra, non sarebbe stato così pesante.
— C'è una casa — le mormorò con voce secca, fischiante. Poi di nuovo: — C'è una casa tra gli alberi. Non molto lontano… — Questa volta lo udì, si girò fiaccamente, lottando contro di lui e gemendo — Non andarci. Non andare lì. Non nelle case. I Ramarren non devono andare nelle case, Falk… — Scoppiò a piangere debolmente in una lingua sconosciuta, quasi chiedendo aiuto. Lui si trascinò avanti, piegato sotto il suo peso.
Nel tardo crepuscolo brillò improvvisamente una luce dorata che gli colpì gli occhi: una luce che splendeva da alte finestre, dietro ad alti alberi neri.
Si levò un rumore stridulo, fragoroso, proveniente da dov'era la luce. Aumentava, si avvicinava. Avanzò faticosamente, poi si fermò alla vista di ombre che gli correvano incontro uscendo dall'oscurità; erano loro che facevano quel fragore assordante, stridente. Massicce figure nere che gli arrivavano fino alla cintola lo circondavano, caracollandogli intorno mentre restava lì, immobile, col peso inerte di Estrel sulle braccia. Non aveva la possibilità di impugnare la rivoltella, né osava muoversi. Le luci brillavano sempre con la stessa fermezza alle alte finestre, a poche centinaia di passi. Gridò: — Aiuto! Aiuto! — ma dalla sua gola usciva solo un sussurro raschiante.
Risuonarono altre voci, che chiamavano imperiosamente da una certa distanza. Le scure ombre bestiali si ritrassero, in attesa. Lo raggiunsero delle persone, mentre lui, sempre con Estrel addosso, era caduto in ginocchio. — Prendete la donna — disse una voce maschile; un'altra proferì chiara: — Cos'abbiamo mai? Un altro paio di burattini animati? — Gli intimarono di alzarsi, ma lui non se ne dette per inteso e continuò a mormorare: — Non fatele del male… è ammalata.
— Vieni, dunque! — Rapide mani imperiose lo costrinsero a obbedire. Si lasciò prendere Estrel. Era così stordito dalla fatica che per un bel po' non si rese conto di cosa succedesse e dove fosse. Comunque gli fecero bere acqua fresca a volontà, e fu ciò che capì, ciò che gli interessava.
Era seduto ora. Qualcuno di cui non capiva la lingua cercava di fargli bere un bicchiere pieno di liquido. Prese il bicchiere e bevve. Era un intruglio che bruciava, e aveva un forte sapore di ginepro. Un bicchiere, un bicchierino verde lattiginoso; fu la prima cosa che notò. Non beveva da un bicchiere da quando era partito dalla Casa di Zove. Scrollò il capo, sentendosi il liquore scendere giù per la gola, salirgli al cervello; poi levò gli occhi verso l'alto.
Si trovava in una stanza, una stanza enorme. Il pavimento era tutto di marmo lucidissimo e rispecchiava vagamente la parete più lontana, sulla quale o nella quale splendeva un grandissimo disco di luce gialla, soffusa. Il calore che il disco irradiava gli riscaldava il viso sollevato. A metà strada fra lui e il cerchio di luce un'altra sedia, massiccia, si ergeva sul pavimento nudo; accanto alla sedia, immobile, di profilo, stava accovacciata una bestia scura.
— Cosa sei?
Lo vedeva di profilo, il naso, la mascella, la mano nera posata sul bracciolo della sedia. Aveva una voce fonda, dura come la pietra. Non parlò in Galaktika, che ormai parlava da tanto tempo, ma nella sua lingua originaria, quella della Foresta, benché con un'inflessione diversa. Rispose lentamente, dicendo la pura verità.
— Non so cosa sono. Quel che sapevo di me mi fu tolto sei anni fa. Imparai il comportamento degli uomini in una Casa della Foresta. Ora vado a Es Toch per cercare di sapere il mio nome e la mia natura.
— Vai nel Posto della Menzogna per apprendere la verità? Pagliacci e pazzi se ne trovano un po' dappertutto su questa povera Terra, ma questo li batte tutti per follia o falsità. Cosa ti condusse nel mio Regno?
— La mia compagna…
— Non mi dirai che è stata lei a portarti qui?
— Stava male; cercavo dell'acqua. Sta…
— Non dire altro. Sono contento che tu non abbia detto che è stata lei a portarti qui. Sai che posto è questo?
— No.
— Questa è l'Enclave del Kansas e io ne sono il padrone. Sono il signore, il suo Principe e Dio. Da me dipende quel che succede qui. Vi giochiamo uno dei grandi giochi. Si chiama il Re del Castello. Ha regole antichissime, e sono le uniche che mi vincolino. Il resto è alla mia mercé.
Quando si levò dalla sedia un tiepido morbido sole gli splendeva dietro da pavimento a soffitto, da parete a parete. Al di sopra della stanza, molto più su, volte e travi opache trattenevano la ferma luce dorata riflessa tra le ombre. La luce contro cui si stagliava il suo profilo metteva in risalto un naso aquilino, una fronte spaziosa che sfuggiva all'indietro, una corporatura alta e possente, ma sottile, maestosa di portamento, dai movimenti bruschi. Falk si mosse un poco e l'animale mitologico steso accanto al trono si stirò ringhiando. Il liquore al ginepro gli aveva volatilizzato ogni pensiero; avrebbe dovuto pensare che era la pazzia a far sì che quest'uomo si definisse re, ma pensava invece che era stato il potere sovrano a farlo impazzire.