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— E non sai come ti chiami?

— Quelli che mi hanno accolto mi chiamavano Falk.

— Andare alla ricerca del proprio vero nome: quale strada migliore di questa da percorrere? Nessuna meraviglia dunque se ti portò al mio cancello. Ti prendo come giocatore del Gioco — disse il Principe del Kansas. — Non succede ogni sera che un uomo con occhi che sembrano gioielli venga a bussare alla mia porta. Respingerlo sarebbe troppo prudente e scortese; e cos'è la regalità se non rischio e misericordia? Ti chiamano Falk, io no. Nel Gioco sarai Opale. Sei libero di muoverti. Fermo, Grifone.

— Principe, la mia compagna…

— … è una Shing o un burattino o una donna: a che scopo la tieni? Tranquillo, uomo; non si replica ai re così velocemente. So perché la tieni. Ma non ha nome e non gioca nel Gioco. Le mie mandriane se ne sono prese cura, e non intendo più parlare di lei. — Così dicendo il Principe si avvicinava a lui a grandi, lenti passi sul pavimento nudo. — Il nome di chi mi accompagna è Grifone. Hai mai sentito nei vecchi Canoni e Leggende di quell'animale chiamato cane? Grifone è un cane. Come vedi ha poco in comune con quegli animaletti gialli guaiolanti che scorazzano per le pianure, benché siano parenti. La progenie di costui si è estinta, come la regalità. Opale, cosa desideri sopra ogni cosa?

Il Principe fece queste domanda con acuta, improvvisa genialità, guardando Falk diritto negli occhi. Stanco, confuso, e deciso a dire la verità, Falk rispose: — Andare a casa.

— Andare a casa… — Il Principe del Kansas era scuro come il profilo che delineava la sua persona, come l'ombra che proiettava, un vecchio alto più di due metri, color giaietto, col viso affilato come una spada. — Andare a casa… — Si era scostato un poco per studiare un lungo tavolo vicino alla sedia di Falk. Solo ora Falk vide che il piano del tavolo era incassato in una cornice alta parecchi centimetri e conteneva una rete di fili d'oro e d'argento dove erano infilate delle perle che potevano passare da un filo all'altro e, in certi punti, cambiare il livello. Ce n'erano a centinaia, dalla misura di un pugnetto infantile a quella di un semino di mela, e di vario materiale: argilla, pietra, legno, metallo, osso, plastica, vetro, ametista, agata, topazio, turchese, opale, ambra, berilio, cristallo, granata, smeraldo, diamante. Era un telaio crea-forme come quelli di Zove, di Buckeye e degli altri della Casa. Proveniente dalla grande cultura di Davenant, e ormai antichissimo anche sulla Terra, l'oggetto fungeva da indovino, da calcolatore elettronico, da strumento di disciplina mistica, da giocattolo. Falk nella sua breve seconda vita non aveva avuto tempo di imparare molto sui crea-forme. Una volta Buckeye aveva fatto notare che ci volevano da quaranta a cinquant'anni per imparare a maneggiarli; e il suo, tramandatole dall'antichità come oggetto di famiglia, aveva solo una trentina di centimetri di superficie, con venti o trenta perle…

Un prisma di cristallo andava a colpire una sfera di ferro con un tintinnio leggero ma nitido. Il turchese schizzava a sinistra e un doppio anello di osso verniciato, adorno di granate, disegnava cerchi verso destra e verso il basso, mentre un opale di fuoco splendeva per un attimo al punto morto della cornice. Mani sottili, nere, forti balenavano sopra i fili, facendo con i gioielli un gioco di vita e di morte. — Così — disse il Principe — vuoi andare a casa. Ma sta' a guardare! Sai leggere la cornice? Vastità. Ebano e diamante e cristallo, tutti gioielli di fuoco: e l'Opale tra di loro, che va avanti, che va oltre. Oltre la Casa del Re, oltre la Prigione della Parete di vetro, oltre le colline e le depressioni di Kopernico, ecco, la pietra vola verso le stelle. Romperai la cornice, la cornice del tempo? Guarda qui!

Lo sfrecciare e il baluginare delle perle splendenti si mescolarono negli occhi di Falk. Aggrappato al bordo del grande telaio mormorò: "Non so leggerlo…

— È il gioco che stai facendo tu, Opale, che tu lo sappia leggere o no. Bene, molto bene. Questa notte i miei cani abbaiavano a un mendicante, ed egli si è dimostrato un principe di luce stellare. Opale, quando verrò a chiedere acqua dai tuoi pozzi e riparo entro le tue mura, mi accoglierai? Sarà una notte ben più fredda di questa… E ci vorrà molto tempo prima di allora. Vieni da molto, moltissimo tempo fa. Sono vecchio io, ma tu lo sei ancor più; saresti dovuto morire un secolo fa. Ti ricorderai di qui a un secolo che hai incontrato un re nel deserto? Muoviti, muoviti, ti ho detto che sei libero di muoverti qui dentro. C'è chi ti può servire se ne hai bisogno.

Falk attraversò la stanza fino ad arrivare a un portone nascosto da una tenda. Al di là della porta, in un'anticamera, un ragazzo era in attesa; ne chiamò poi altri. Senza mostrar sorpresa, senza il minimo servilismo, deferenti solo nell'aspettare che fosse Falk a parlare per primo, gli procurarono un bagno, abiti nuovi, cibo e un letto pulito in una stanza tranquilla.

Nella Gran Casa dell'Enclave del Kansas visse tredici giorni in tutto, mentre l'ultima spruzzata di neve e gli improvvisi acquazzoni primaverili spazzavano le terre deserte che confinavano con i giardini del Principe. Estrel, che si riprendeva a poco a poco, era alloggiata in una delle molte case minori che si ergevano dietro all'edificio principale. Era libero di stare con lei quando voleva… libero di fare tutto quello che desiderava. Il Principe governava il suo dominio con potere assoluto, ma il suo governo non era affatto un'imposizione: era piuttosto accettato come un onore; le sue genti accettavano di essergli soggette probabilmente perché pensavano che nell'affermare l'innata ed essenziale grandezza di uno, riaffermavano anche la loro qualità di uomini. Non erano più di duecento, mandriani, giardinieri, fabbricanti e riparatori, le loro mogli, i loro figli. Era un regno piccolissimo. Eppure dopo un po' di giorni a Falk parve evidente che anche se non vi fossero stati sudditi, anche se fosse vissuto del tutto solo, il Principe del Kansas non avrebbe perduto nessuna delle sue qualità regali. Una volta ancora si trattava di qualità.

Questa curiosa realtà, questa singolare validità del dominio del Principe lo affascinò e lo assorbì a tal punto che per giorni e giorni quasi scordò il mondo esterno, quel mondo disperso, violento, incoerente che aveva percorso in lungo e in largo. Ma al tredicesimo giorno, parlando con Estrel di rimettersi in cammino, cominciò a chiedersi quale relazione esistesse tra l'Enclave e tutto il resto. Disse: — Credevo che gli Shing non tollerassero alcuna forma di sovranità tra uomo e uomo. Perché mai dovrebbero permettergli di difendere i suoi confini, permettergli di chiamarsi Principe, Re?

— E perché non dovrebbero lasciarlo vaneggiare? Quest'Enclave del Kansas è un territorio sterminato, ma brullo e vuoto di abitanti. Perché il Signore di Es Toch dovrebbe interferire in quello che fa lui. Immagino che per loro sia come un bambino stupido e vanaglorioso, che parla a vanvera.

— Lo ritieni tale?

— Be', hai visto ieri, quando è venuto quell'aereo?

— Ma certo.

Un aeromobile, il primo che Falk vedeva, benché riconoscesse il rombare del motore, aveva attraversato il cielo proprio sopra la casa, molto in alto, ma rimanendo in vista per qualche minuto. I domestici del Principe erano corsi fuori per i giardini sbattendo padelle e campanelle, cani e bambini s'erano messi a urlare, il Principe dall'alto di un balcone elevato s'era messo solennemente a sparare una serie di assordanti petardi, fino a quando l'aeromobile non fu scomparso in un occidente tenebroso.