Poco per volta la realtà si ricostruì, le cose ebbero nomi, le pareti sorsero. Lesse la prima pagina del libro un'ultima volta, poi si stese a dormire.
La parete orientale della sua stanza era smeraldina per la prima luce del sole quando un paio di uomini programmati venne a prenderlo per concludo giù, attraverso un salone appannato, a pianterreno, poi alla strada, quindi in slitta per le strade ancora buie e al di là dell'abisso fino a un'altra torre. Non erano i due programmati che lo avevano servito, ma un paio di guardie enormi e silenziose. Ricordando la meticolosa brutalità della bastonatura che aveva ricevuto non appena entrato a Es Toch, prima lezione di non fiducia in se stesso impartitagli dagli Shing, immaginò che temessero un estremo tentativo di fuga, e gli avevano mandato le due guardie per scoraggiarlo a compiere atti inconsulti.
Fu condotto per un labirinto di stanze che finivano in stanzette sotterranee illuminate a giorno, completamente chiuse e dominate dagli schermi e dai quadri di controllo di un enorme cervello elettronico. Fu in una di queste stanzette che gli si fece incontro Ken Kenyek, solo. Era curioso: aveva visto gli Shing solo uno o due alla volta, e molto pochi in tutto. Ma adesso non c'era tempo per lambiccarsi il cervello su questi problemi, benché ai margini della sua mente frullasse per un attimo un vago ricordo, una spiegazione. Ma poi parlò Ken Kenyek.
— Non hai cercato di ucciderti ieri sera — disse lo Shing con il suo atono bisbiglio.
Era davvero l'unica via di scampo che non gli era mai passata per la mente.
— Ho pensato che era meglio lasciarlo fare a voi — rispose.
Ken Kenyek non prestò attenzione alle sue parole, pur con l'aria di stare ad ascoltarlo. — È tutto a posto — disse. — Questi sono quegli stessi quadri di controllo, e per la precisione quegli stessi contatti, che vennero usati per bloccare la tua primaria struttura mentale-paramentale, sei anni fa. La rimozione del blocco dovrebbe avvenire senza difficoltà o trauma, dato il tuo consenso. Il consenso è indispensabile per la ricostruzione, non invece per la soppressione. Sei pronto? — Quasi simultaneamente alla sua viva voce, comunicò con Falk in una telepatia straordinariamente chiara: — Sei pronto?
Prestava attento ascolto quando Falk rispose con un gentile: — Sì.
Come se fosse soddisfatto della risposta o dell'enfasi, lo Shing annuì e disse con il suo monotono bisbiglio: — Comincerò quindi senza droghe. Le droghe annebbiano la chiarezza dei processi paraipnotici: è più facile se si lavora senza. Siediti lì…
Falk obbedì, senza dire una parola, cercando di mantenere zitta anche la mente.
A un segnale inespresso entrò un assistente, si avvicinò a Falk mentre Ken Kenyek si sedeva davanti a uno dei quadri di controllo del computer, come un musicista si accosta al suo strumento. Per un attimo Falk ricordò il grande telaio crea-forme nella Sala del Trono del Kansas, le veloci mani nere che si libravano sopra il ripiano, facendo e disfacendo le sicure, mutevoli forme di pietre, stelle, pensieri… Una nerezza calò come un sipario sopra i suoi occhi, sopra la sua mente. Fu consapevole che gli era stato infilato qualcosa in testa, un cappuccio, un berretto; poi non fu più consapevole di nulla, solo la nerezza, una nerezza infinita, il buio. Nel buio una voce che pronunciava una parola alla sua mente, una parola che quasi capiva. Di nuovo e di nuovo la stessa parola, la parola, la parola, il nome… Come l'ultimo guizzo di una luce, la sua volontà di sopravvivere guizzò, ed egli dichiarò con uno sforzo orribile, che si contrapponeva a cose così straordinarie, in silenzio: Sono Falk!
Poi il buio.
9
Era un posto tranquillo e oscuro, come in una profonda foresta. Debole com'era rimase a lungo nel dormiveglia. Spesso sognava, o ricordava frammenti di un sogno che aveva fatto in un sonno precedente, più profondo. Poi riprendeva a dormire per svegliarsi nell'oscura luce verde, nella tranquillità.
Ci fu un movimento accanto a lui. Girando la testa vide un giovane, uno straniero.
— Chi sei?
— Har Orry.
Il nome precipitò come un sasso nella sognante tranquillità della sua mente e svanì. Solo che i cerchi originati da quel sasso si allargarono, si allargarono fievolmente, lentamente, finché alla fine il cerchio più esterno toccò riva e si ruppe. Orry, il figlio di Har Weden, uno dei viaggiatori… un bambino, un ragazzetto nato d'inverno, l'inverno di Werel.
L'immobile superficie di quello specchio d'acqua che era il suo sonno fu solcata da un impercettibile disturbo. Richiuse gli occhi e desiderò di lasciarsi affondare.
— Ho sognato — mormorò a occhi chiusi. — Ho fatto un mucchio di sogni…
Ma era di nuovo sveglio e guardava quel viso spaventato, dubbioso, infantile. Era Orry, il figlio di Weden: Orry come poteva essere un cinque, sei fasi lunari dopo, se erano sopravvissuti al Viaggio.
Che cosa aveva dimenticato?
— Che posto è questo?
— Per carità, sta' fermo, prech Ramarren… non parlare ancora; sta' fermo per favore.
— Cosa mi è successo? — Lo stordimento lo costringeva a obbedire al ragazzo e a restare disteso. Il corpo, perfino i muscoli delle labbra e la lingua, non gli obbedivano correttamente. Non si trattava di debolezza, ma di una strana mancanza di controllo. Per sollevare la mano doveva compiere un consapevole sforzo della volontà, come se la mano che sollevava fosse stata di qualcun altro.
La mano di qualcun altro… Si guardò il braccio e la mano per un bel po'. La pelle era curiosamente brunita, un colore che ricordava il mantello di un cerbiatto. Per tutto l'avambraccio fino al polso correva una serie di cicatrici bluastre parallele, leggermente punteggiate, come se fossero state fatte da ripetute punture d'ago. Anche la pelle del palmo era indurita e segnata dal tempo, come se fosse stato all'aperto a lungo, anziché nei laboratori e nelle sale dei computer del Centro dei Viaggi e nelle Sale del Consiglio e nei Luoghi del Silenzio di Wegest…
D'un tratto si guardò attorno. La stanza dove si trovava non aveva finestre; ma stranamente poteva vedere la luce del sole attraverso le pareti verdastre.
— C'è stato un incidente — disse infine. — Al momento del lancio, o quando… Ma il Viaggio l'abbiamo fatto. L'abbiamo fatto. O l'ho sognato?
— No, prech Ramarren. Abbiamo fatto il Viaggio.
Ancora silenzio. Dopo un poco disse: — Riesco a ricordare il Viaggio solo come se fosse durato una notte, una notte lunga, ieri notte… Ma da ragazzo che eri ti ha fatto diventare quasi uomo. Ci siamo sbagliati, su questo, dunque.
— No, non è stato il Viaggio a farmi invecchiare… — Orry si arrestò.
— Dove sono gli altri?
— Dispersi.
— Morti? Dimmi tutto, vesprech Orry.
— Probabilmente morti, prech Ramarren.
— Che posto è questo?
— Riposa, per piacere.
— Rispondi.
— Questa è una stanza in una città che si chiama Es Toch sul pianeta Terra — rispose il ragazzo andando fino in fondo, ma poi ruppe in una specie di lamento. — Non la riconosci? Non ricordi niente di tutto ciò? Ma è peggio di prima…
— Perché dovrei ricordare la Terra? — bisbigliò Ramarren.
— Dovevo… dovevo dirti Leggi la prima pagina del libro.
Ramarren non prestava attenzione al balbettio del ragazzo. Adesso sapeva che era andato tutto a rotoli, e che era passato del tempo di cui non sapeva nulla. Ma fino a che non riusciva a padroneggiare questa strana debolezza del suo corpo non poteva far nulla, e così rimase tranquillo finché non gli passò lo stordimento. Poi, cercando di non pensare a nulla, prese a recitare dei Soliloqui del Quinto Livello; e quando gli ebbero calmato la mente, si decise a dormire.