Ancora una volta il suo sonno si affollò di sogni, complessi e terrificanti, eppure sgorgavano dolcemente come la luce del sole quando si fa strada nel buio di una antica foresta. Un sonno più profondo disperse queste fantasie, e il sogno divenne ricordo semplice e vivido: stava aspettando accanto all'aerostato per accompagnare il padre in città. Sulle colline pedemontane di Charn le foreste a metà spoglie si preparavano al lungo letargo, ma l'aria era calda, chiara e ferma. Suo padre, Agad Karsen, un uomo smilzo e minuto che indossava gli abiti del suo rango e calzava un casco con la pietra del suo grado, attraversava pacatamente il prato assieme alla figlia; ridevano entrambi perché lui la stuzzicava sul suo primo pretendente. — Ma dagli un'occhiata a quel ragazzo, Parth; ti farà una corte spietata se glielo permetti. — Parole pronunciate in serenità anni prima, nella calda luce solare dell'autunno lungo e dorato della sua giovinezza; ora le risentiva, assieme alla risata della ragazza come tutta risposta. Sorella, sorellina, amata Arnan… Come l'aveva chiamata suo padre? Non con il suo vero nome, ma qualcosa di diverso, un altro nome…
Ramarren si svegliò. Si sedette nel preciso sforzo di riprender il contatto del suo corpo, sì, suo ancora malcerto e tremolante, purtuttavia di certo suo. Al momento del risveglio aveva avuto la fulminea sensazione di essere uno spirito in carni aliene, smarrito, perduto.
Bene, invece. Era Agad Ramarren, nato nella casa argentea tra gli ampi prati, sotto il bianco picco di Charn, la Montagna Isolata; l'erede di Agad, nato d'autunno, cosicché tutta la vita l'aveva passata in autunno e inverno. La primavera non l'aveva mai vista, né mai doveva vederla, dato che l'astronave Alterra aveva iniziato il Viaggio verso la Terra il primo giorno di primavera. Ma il lungo inverno, l'autunno, la durata della sua età virile, dell'adolescenza, della fanciullezza, si stendevano dietro di lui vividi e continui, ben chiari nel ricordo, fiume che scorreva ininterrotto fino alla sorgente.
Il ragazzo Orry non era più nella stanza. — Orry! — esclamò ad alta voce; perché adesso era in grado di sapere, e voleva saperlo, cos'era successo a lui, ai suoi compagni, all'Alterra, alla loro missione. Non venne risposta, nessun segnale. La stanza sembrava non soltanto priva di finestre, ma anche di porte. Frenò l'impulso di chiamare il ragazzo telepaticamente: non sapeva se Orry fosse ancora sintonizzato con lui. Inoltre, poiché la mente aveva sofferto un danno o un'interferenza evidenti, era meglio procedere con cautela, tenersi fuori del contatto con qualsiasi altra mente. Prima bisognava sapere se era minacciato da un controllo della volizione o dell'acroma.
Si alzò in piedi ricacciando le vertigini e un lancinante dolore occipitale e percorse più volte la stanza avanti e indietro. A poco a poco i muscoli si scioglievano e frattanto studiava gli abiti stranieri che aveva indosso e la strana stanza dove si trovava. C'erano molti mobili, letti, tavoli, sedili, tutti su lunghe gambe sottili. Le pareti traslucide di un verde cupo erano ricoperte di disegni volutamente ingannevoli e disgreganti, uno dei quali nascondeva una porta a soffietto, un altro uno specchio a mezzobusto. Si fermò per guardarsi un momento. Era magro, segnato dal tempo e probabilmente più vecchio; non lo sapeva bene. Nel guardarsi si sentì curiosamente autocosciente. E cos'era questo disagio, questa mancanza di concentrazione? Cos'era successo, cos'era andato perduto? Si girò riprendendo a esaminare la stanza. C'erano vari oggetti strani lì attorno, e due di tipo familiare, benché stranieri nei particolari: una tazza su un tavolo e, accanto, un libro a fogli. Prese il libro. Nel cervello gli guizzò qualcosa che gli aveva detto Orry, ma subito scomparve. Il titolo non gli diceva nulla, benché i caratteri avessero precisa attinenza con l'alfabeto della Lingua dei Libri. Aprì l'oggetto e vi gettò uno sguardo. Le pagine di sinistra sembravano scritte a mano in chiare colonne di disegni meravigliosamente complessi, simboli sacramentali, ideogrammi, o segni stenografici. Le pagine di destra, anch'esse scritte a mano, erano invece scritte in lettere simili a quelle dei Libri, in lingua Galaktika. Un libro cifrato? Ma non aveva avuto il tempo di esaminare più di una parola o due che la porta a soffietto si aprì silenziosamente lasciando entrare nella stanza una persona: una donna.
Ramarren la guardò con intensa curiosità, senza cautele o timori. Soltanto, sentendosi vulnerabile, accentuò l'autorevolezza e l'inquisità dello sguardo, cui la sua nascita, di Livello Buono, gli dava diritto. Per nulla intimidita, la donna lo osservò a sua volta. Stettero un attimo in silenzio.
La donna era bella e delicata, vestita in modo fantasioso, con capelli ramati o tinti di rosso. Gli occhi erano due carboni in un candido ovale. Occhi simili a quelli dei volti dipinti nella Sala della Vecchia Città, ritratti di gente alta dalla pelle scura che costruiva città, combatteva con i Migratori, osservava le stelle: i Colonizzatori, i Terraniani di Alterra…
Ramarren sapeva fuor di dubbio di essere veramente sulla Terra, di aver fatto il Viaggio. Mise da parte orgoglio e diffidenza, e si inchinò davanti a lei. Per lui, per tutti quelli che lo avevano inviato in una missione di ottocentoventicinque trilioni di nulla, quella donna apparteneva a una razza cui il tempo e la memoria dell'oblio avevano attribuito la qualità del divino. Sola e una, lì, e di fronte a lei, ella tuttavia era parte della Razza dell'Uomo, e guardava a lui con gli occhi di quella Razza, ed egli onorava la storia e il mito e il lungo esilio dei suoi antenati chinando la testa, inginocchiato davanti a lei.
Si alzò e tese le mani aperte nel gesto Kelshiano di ricevere; ella gli parlò. La sua voce suonò strana, stranissima. Anche se non T'aveva mai vista prima, la voce suonò infinitamente familiare al suo orecchio; anche se non conosceva la sua lingua, ne capì prima una parola poi un'altra. Si smarrì per un attimo; temette che usasse qualche forma di telepatia per penetrare la sua barriera di desintonizzazione. L'attimo dopo si rese conto che la capiva perché parlava la Lingua dei Libri, il Galaktika. Era solo il suo accento, la scioltezza del discorso che gli avevano impedito di riconoscerla immediatamente.
Gli aveva già detto parecchie frasi, parlandogli in modo distaccato, svelto, inerte — … non sanno che sono qui — gli stava dicendo. — Dimmi ora chi di noi è il bugiardo, lo sleale. Ho percorso con te tutto quell'interminabile cammino, con te ho trascorso un centinaio di notti, e ora non sai nemmeno il mio nome. Oppure sì, Falk? Sai il mio nome? Sai il tuo?
— Io sono Agad Ramarren — rispose, ma il suo nome, detto dalla sua stessa voce, gli suonò strano.
— Chi ti ha detto così? Sei Falk. Non conosci uno che si chiama Falk? Era uno che si rivestiva della tua carne. Ken Kenyek e Kradgy mi hanno vietato di farti questo nome, ma sono stufa di stare al loro gioco e non fare di testa mia. Mi piace anche fare da me. Non ricordi il tuo nome, Falk?… Falk… non ricordi, il tuo nome? Ah, sei ancora lo stupido che sei sempre stato, stai lì a occhi aperti come un pesce attonito!
Abbassò subito lo sguardo. Tra i Wereliani guardare una persona direttamente negli occhi era una questione delicatissima, controllata da tabù e regole rigide. Fu la sua prima reazione esterna alle parole di lei, ma le reazioni interiori furono simultanee e diverse. In primo luogo, doveva essere drogata, forse da uno stimolante-allucinogeno: le sue esperte percezioni gli consentivano di esserne sicuro, che gli piacessero o meno le implicazioni che ne derivavano sulla Razza Umana. D'altra parte, non era sicuro di aver capito tutto ciò che aveva detto. Certo non aveva idea di che cosa parlasse, ma l'intento che si proponeva era aggressivo, distruttivo. E l'aggressione riuscì. Malgrado non avesse affatto capito gli strani scherzi di lei, il nome che ripeteva continuamente lo agitò, addolorò, scosse, colpì.