Quello con la barba ghignò, mostrando denti brunastri.
— Noi siamo uomini — disse Argerd — uomini, uomini liberi, uccisori. Tu cosa sei, mezza-mente e occhi di gufo, e perché non dovremmo ucciderti? Sei un uomo?
Nell'arco breve della sua memoria, Falk non si era mai trovato direttamente di fronte alla crudeltà o all'odio. Le poche persone che aveva conosciuto non erano proprio senza paura, ma non ne erano completamente dominate; erano stati generosi e amichevoli. Lì, tra quei due, era senza difesa, come un bambino, e il fatto di saperlo lo lasciava confuso e furente.
Pensò a qualche mezzo per difendersi e fuggire e non ne trovò nessuno. Poteva soltanto dire la verità.
— Io non so cosa sono, né da dove vengo. Sono in viaggio per tentare di scoprirlo.
— Verso dove?
Girò lo sguardo da Argerd verso l'altro, Drehnem. Sapeva che essi conoscevano già la risposta, e che Drehnem lo avrebbe colpito ancora quando l'avesse detta.
— Rispondi! — bisbigliò l'uomo con la barba, alzandosi e piegandosi in avanti.
— A Es Toch — disse Falk, e di nuovo Drehnem lo colpì in viso, e di nuovo ricevette il colpo con l'umiltà silenziosa di un bambino punito da un estraneo.
— Questo non va; non dice niente di diverso da quello che abbiamo ricavato con il penton. Lascia stare.
— E allora? — chiese Drehnem.
— È venuto per trovare rifugio una notte; lo avrà. In piedi!
La cinghia che lo legava alla sedia fu allentata. Con qualche incertezza si resse sulle gambe. Quando vide la porta bassa e la rampa nera di scale in discesa verso cui lo trascinavano, tentò di resistere e di liberarsi, ma i muscoli non gli obbedivano ancora. Drehnem gli torse le braccia fino a farlo accucciare, poi lo spinse oltre la porta. Quando si girò su se stesso per conservare l'equilibrio sulle scale, la porta fu sbattuta e chiusa.
Era nel buio, nero. La porta era come sigillata, non c'era maniglia sul bordo, dall'altro lato non arrivava nessun movimento, nessuna lama di luce, nessun suono. Falk sedette sul primo gradino e lasciò cadere la testa tra le braccia.
Gradualmente la debolezza del corpo e la confusione del cervello sparirono. Alzò la testa, sforzandosi di vedere. Nel buio la sua vista era straordinariamente acuta, e questo, Rayna l'aveva dimostrato molto tempo prima, era merito dei suoi occhi dalla pupilla e dall'iride allargati. Ma solo macchie e frammenti di visioni passate giunsero a tormentargli gli occhi; non poteva veder nulla, perché la luce mancava del tutto. Si alzò in piedi e un gradino alla volta tastò la via lentamente, giù per la stretta scala che non vedeva.
Ventun gradini, due, tre… pavimento. Polvere. Falk si incamminò adagio, con una mano stesa in avanti, in ascolto.
Nell'oscurità si percepiva una specie di pressione fisica, una costrizione che lo ingannava creandogli l'illusione che in fondo sarebbe riuscito a vedere se si sforzava abbastanza, che non doveva e non aveva paura del buio in se stesso. Metodicamente, a passi e tastoni e suoni, esplorò e si fece un quadro di una parte della vasta cantina in cui si trovava, la prima di una serie di stanze che, a giudicare dagli echi, proseguiva senza fine. Si aprì la via del ritorno alle scale, che eran divenute la sua base, perché da lì aveva cominciato l'esplorazione. Tornò a sedersi, sull'ultimo gradino stavolta, e rimase fermo. Aveva fame, anche molta sete. Gli avevano tolto lo zaino, non aveva nulla con sé.
"Hai sbagliato" si disse Falk amaramente, e nella sua mente iniziò un dialogo;
"Che ho fatto di male? Perché mi hanno attaccato?"
"Zove ti aveva avvertito: non fidarsi di nessuno. Loro non si fidano di nessuno e fanno bene."
"Anche se qualcuno viene a chiedere aiuto?"
"Qualcuno con la tua faccia… i tuoi occhi? È ovvio anche al primo sguardo che non sei un uomo come gli altri."
"Nonostante tutto, un sorso d'acqua me l'avrebbero potuto dare" — disse la parte più infantile e intrepida della sua mente.
"Sei dannatamente fortunato che non ti abbiano ucciso subito" replicò duro il suo intelletto, e non ottenne risposta.
Era chiaro: tutti quelli che vivevano nella Casa di Zove si erano abituati agli occhi di Falk, gli ospiti erano rari e cauti, sicché egli non era mai stato costretto a tener conto della differenza fisica che lo distingueva dagli altri uomini. Sembrava una differenza e una barriera molto meno importante dell'amnesia e dell'ignoranza che per tanto tempo lo avevano isolato dagli altri. Ora, per la prima volta, egli si rese conto che un estraneo guardandolo in faccia non vedeva la faccia di un uomo.
Quello che si chiamava Drehnem aveva paura di lui, e lo aveva colpito perché aveva paura, repulsione per l'alieno, il mostruoso, l'incomprensibile.
Era proprio questo che Zove aveva tentato di dirgli con quell'ammonimento severo e affettuoso: — Devi andare da solo, non puoi che essere solo.
Non c'era rimedio, per ora, se non dormire. Si distese sull'ultimo gradino, piegato su se stesso quanto poteva, perché il pavimento oltre che sporco era bagnato, e chiuse gli occhi nel buio.
A un certo momento di quella situazione senza tempo fu svegliato dai topi. Correvano lì attorno, facendo un esile rumore graffiante, zigzag acuto di suoni che si incrociavano nel buio, sussurrando con voci piccolissime: — È male togliere la vita, è male togliere la vita, hello heellllooo non ucciderci non uccidere.
— Io lo farò — tuonò Falk, e tutti i topi rimasero zitti.
Adesso era difficile tornare a dormire; o forse non gli era più possibile sapere se dormiva o se era sveglio. Restò disteso a domandarsi se era giorno o notte; e quanto tempo lo avrebbero tenuto rinchiuso; o se volevano ucciderlo o usar di nuovo la droga finché la sua mente fosse distrutta completamente; e dopo quanto tempo la sua sete sarebbe passata dalla sofferenza alla tortura; e se era possibile prendere topi al buio senza trappole né esche; e quanto tempo si poteva sopravvivere con una dieta di topi crudi.
Diverse volte, per distrarsi dai pensieri, tornò a compiere esplorazioni. Una volta trovò una grande tinozza o botte aperta in alto, e il suo cuore fece un balzo di speranza, ma picchiandola diede un suono vuoto, i bordi scheggiati gli graffiarono le mani, ed egli se ne andò a tastoni. Non riuscì a trovare altre scalinate o altre porte nelle sue esplorazioni tra muri senza fine e mai visibili.
Perse l'orientamento alla fine, e non riuscì più a ritrovare le scale. Sedette sul pavimento, nell'oscurità, ed immaginò la pioggia, fuori nella foresta in cui aveva viaggiato sempre solo, e la luce grigia, col suono della pioggia. Declamò nella sua mente tutto ciò che riuscì a ricordare del Vecchio Canone, cominciando dall'inizio:
Dopo pochi minuti la sua bocca si fece talmente secca che egli tentò di leccare il pavimento, umido, sporco, ma anche fresco; la sua lingua però ebbe l'impressione di incontrare soltanto polvere secca. I topi correvano molto vicini a lui a volte, bisbigliando.
Molto lontano, in fondo ai corridoi bui, scattarono dei catenacci, ci fu rumore di metalli urtati e un netto scoppio di luce. Luce…
Forme e ombre, volte, archi, tini, botti, aperture, apparvero in massa, confusamente, nella realtà che lo circondava. Si alzò e cominciò a muoversi, con passo malcerto però di corsa, verso la luce.
Veniva da una porta bassa, attraverso la quale, quando fu vicino riuscì a scorgere un rialzo di terreno, cime di alberi, e il cielo rosato di una sera o di un mattino, che lo abbacinava come il sole di un mezzogiorno d'estate. Si fermò prima della porta, perché era abbagliato e perché subito oltre c'era una figura immobile.