Webster rabbrividì, e questo gli parve strano, perché il sole di mezzogiorno era caldo. E rabbrividì di nuovo.
Lentamente, voltò le spalle alla balaustra e si diresse verso l’edificio dell’amministrazione. E per un istante rapido e tremendo, fu colpito da una fitta di paura… paura improvvisa, irragionevole e deprimente, di quella distesa di cemento che formava la terrazza. Paura, una paura che fece tremare la sua mente, e la lasciò fragile e scossa e indifesa, mentre i suoi passi lo portavano verso la porta aperta, che attendeva.
Un uomo camminò verso di lui, stringendo in mano una valigetta dondolante, e Webster, guardandolo, pregò ferventemente in cuor suo che l’uomo passasse oltre, che non gli parlasse.
L’uomo non parlò. Gli passò accanto senza neppure curarlo d’una occhiata, e Webster provò un profondo sollievo.
Se fosse stato a casa, pensò Webster, ora avrebbe finito di pranzare, sarebbe stato pronto a sdraiarsi sul letto, per il solito riposo pomeridiano. Il fuoco avrebbe scoppiettato nel caminetto e gli alari avrebbero mandato tutt’intorno il riverbero ondeggiante delle fiamme. Jenkins gli avrebbe portato un liquore e avrebbe scambiato qualche parola con lui… una breve conversazione senza importanza.
Affrettò il passo, dirigendosi verso la porta, affrettò il passo, ansioso di fuggire dalla fredda distesa spoglia della massiccia terrazza di cemento.
Era strano, quello che aveva provato alla partenza di Thomas. Certo, era naturale che l’idea di vederlo partire gli fosse dispiaciuta… Ma era innaturale, completamente innaturale, quel senso di orrore che era cresciuto dentro di lui negli ultimi minuti. Un orrore profondo, insopprimibile, orrore di quel viaggio attraverso lo spazio siderale, orrore delle aliene distese della landa marziana… benché Marte non fosse più alieno, nel senso vero della parola, ormai da molto tempo. Perché i terrestri lo conoscevano da più di un secolo. Lo avevano conosciuto, lo avevano combattuto, vi avevano vissuto; alcuni erano arrivati perfino ad amarlo.
Ma era stato soltanto un disperato sforzo di volontà a impedirgli, negli ultimi secondi che avevano preceduto il decollo dell’astronave, di scendere dalla terrazza, di correre sul campo come un folle, gridando a Thomas di tornare indietro, gridando a Thomas di non andare.
E questo, naturalmente, non sarebbe servito a niente. Sarebbe stato un esibizionismo umiliante e avvilente… una delle cose che i Webster non facevano, non potevano fare.
Dopotutto, si disse, un viaggio su Marte non era una grande avventura, non più, almeno. C’era stato un tempo in cui l’impresa era stata grande e rischiosa, ma quel tempo era passato per sempre. Anche lui, anche lui aveva fatto un viaggio su Marte, quando era stato più giovane, ed era rimasto lassù per cinque lunghi anni. Questo era stato… gli mancò il respiro, quando ci pensò… questo era stato quasi trenta anni prima.
Il vociare e gli altri rumori dell’atrio lo colpirono con una violenza quasi fisica, quando il robot inserviente gli aprì la porta, e in quel vociare scorreva una venatura impalpabile di qualcosa che era quasi terrore. Per un attimo esitò, e poi entrò, con decisione. La porta si chiuse silenziosamente alle sue spalle.
Rimase vicino alla parete, per evitare gli altri, e camminando lentamente si avvicinò a una poltrona sistemata in un angolo. Sedette e si appoggiò allo schienale, affondando nei soffici cuscini, guardando la fauna umana che gremiva, vociante e attiva, la grande sala.
Gente rumorosa, attiva, gente dal viso diverso, ostile. Stranieri… tutti, dal primo all’ultimo. Non un solo viso che lui conoscesse. Gente che andava in molti posti. Partiva per i pianeti. Era ansiosa di andare, di lasciare la Terra. Si preoccupava ansiosamente degli ultimi particolari, degli ultimi preparativi. Gridava e vociava e chiamava e correva.
Gente che si muoveva affannosamente, tumultuosamente, di qua e di là, senza fermarsi.
In quella folla anonima apparve un volto familiare. Webster si protese avanti.
«Jenkins!» gridò, e si pentì immediatamente di avere gridato, anche se nessuno pareva essersene accorto.
Il robot avanzò verso di lui, si fermò davanti a lui.
«Avverti Raymond,» disse Webster, «Che devo tornare immediatamente. Digli di portare l’elicottero davanti all’uscita, immediatamente.» Calcò l’accento su quella parola, immediatamente, che aveva quasi il suono e il sapore della salvezza.
«Spiacente, signore,» disse Jenkins, «Ma non possiamo partire subito. I meccanici hanno scoperto una perdita nel motore atomico. Stanno cambiando il pezzo. Ci vorranno diverse ore.»
«Certamente questo si sarebbe potuto rimandare a qualche altro momento più propizio,» disse Webster, irritato.
«Il meccanico ha detto di no, signore,» gli disse Jenkins. «Il motore potrebbe saltare da un momento all’altro. L’intera carica di energia…»
«Sì, sì,» ammise Webster. «Immagino che tu abbia ragione.»
Rigirò il cappello tra le mani, nervosamente.
«Mi è venuta in mente una cosa,» disse, finalmente. «Una cosa che devo fare. Una cosa che non può attendere. Devo tornare a casa. Non posso aspettare diverse ore.»
Nervosamente, si mosse sulla sedia, rimanendo in equilibrio precario sul bordo di essa, fissando con occhi sbarrati la folla che si assiepava intorno a lui.
Volti… volti…
«Forse il signore potrebbe usare il visifono per chiamare qualcuno, a casa,» suggerì Jenkins. «Uno dei robot potrebbe forse essere in grado di fare quanto lei desidera, signore. C’è una cabina visifonica…»
«Aspetta, Jenkins,» disse Webster. Esitò per un momento. «Non c’è niente da fare, a casa. Niente di niente. Ma io devo tornarci. Non posso restare qui. Se sarò costretto a restare, credo che impazzirò. Ho avuto paura lassù, sulla terrazza. Qui sono confuso e sconvolto. Ho una sensazione… una sensazione strana e terribile. Jenkins, io…»
«Capisco, signore,» disse Jenkins. «Anche suo padre la aveva.»
Webster spalancò gli occhi.
«Mio padre?»
«Sì, signore, era per questo che non andava mai da nessuna parte. Aveva circa la sua età, signore, quando se ne è reso conto. Ha tentato di fare un viaggio in Europa e non c’è riuscito. È arrivato a metà strada ed è tornato indietro. Aveva un nome per definire quanto gli era capitato.»
Webster rimase seduto, sconvolto, in silenzio.
«Un nome per definire questa cosa,» disse poi, dopo una lunga pausa. «Certo che esiste un nome per definirla. Mio padre l’aveva trovato. Dimmi, Jenkins… anche mio nonno ne soffriva?»
«Non saprei, signore,» rispose Jenkins. «Io sono stato creato solo quando suo nonno era già anziano. Ma è possibile. Neppure lui si muoveva mai, signore.»
«Tu capisci, allora,» disse Webster. «Sai quello che provo. Mi sembra di stare male… starò male, Jenkins, starò male fisicamente, se dovrò restare qui ancora per qualche tempo. Vedi se ti è possibile noleggiare un elicottero… qualsiasi cosa, pur di tornare a casa.»
«Sì, signore,» disse Jenkins.
Si voltò e fece per andarsene, ma Webster lo richiamò.
«Jenkins, nessun altro sa di questa cosa? C’è qualcuno…»
«No, signore,» disse Jenkins. «Suo padre non ne ha mai fatto cenno, e io ho avuto l’impressione che non gli avrei fatto piacere a parlarne.»
«Grazie, Jenkins,» disse Webster.
Webster sprofondò di nuovo nella poltrona, e si sentì desolato e solo in un ambiente estraneo e ostile. Solo in un atrio pieno di folla vociante, che pulsava di vita… e quella solitudine lo dilaniava, lo lasciava vuoto e stanco e debole e inerte.