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Nostalgia di casa. Nostalgia di casa, pura e semplice, vergognosa e umiliante, si disse. Una cosa che provano i bambini quando lasciano la loro casa per la prima volta, quando per la prima volta escono ad affrontare il mondo.

C’era anche una parola scientifica per definire quella cosa, agorafobia, il terrore morboso di trovarsi al centro di uno spazio aperto… una parola che derivava dal greco, e la cui radice era la paura… letteralmente, paura della piazza.

Se lui attraversava l’atrio ed entrava nella cabina visifonica, poteva chiamare casa sua, parlare con sua madre o con uno dei robot… o, meglio ancora, poteva starsene a sedere, a guardare la casa, in attesa del ritorno di Jenkins.

Cominciò ad alzarsi, e poi sprofondò di nuovo nella poltrona. Era inutile. Parlare con qualcuno o stare a guardare la casa non era come esserci davvero. Non avrebbe potuto sentire il profumo dei pini nell’aria cristallina dell’inverno, né udire lo scricchiolio familiare della neve che copriva i viali e si frangeva sotto i suoi piedi, né tendere una mano per toccare una delle grandi querce che crescevano nei viali. Non avrebbe potuto sentire il calore del focolare, né la sensazione certa e rassicurante del possesso, né la consapevolezza di essere tutt’uno con il terreno conosciuto e amato e con tutte le cose che vi crescevano sopra.

Eppure… forse lo avrebbe aiutato a vincere quel terrore. Non molto, forse, ma un poco. Fece di nuovo per alzarsi dalla poltrona, e si immobilizzò, d’un tratto. Quei pochi passi che portavano alla cabina racchiudevano il terrore, un terrore tremendo, invincibile. Se avesse percorso quei pochi passi, avrebbe dovuto correre. Correre per fuggire da quegli occhi vigili che lo fissavano, da quei suoni innaturali che lo circondavano, dalla tremenda agonia che gli dava la presenza di quei volti estranei.

Si afflosciò di nuovo sulla poltrona, svuotato di ogni forza.

La voce stridula di una donna si udì nell’atrio, e Webster tremò, si rannicchiò per sfuggire a quel grido odioso. Si sentiva male, male. Aveva l’inferno dentro di sé. Dov’era Jenkins? Un’ondata di nausea parve sommergerlo. Perché Jenkins non faceva più in fretta?

Il primo alito della primavera penetrò dalla finestra, riempiendo lo studio della promessa di nevi che si scioglievano, di foglie e fiori che si ridestavano dal lungo torpore dell’inverno, di acque ancora spumeggianti del freddo abbraccio delle montagne, di ghiacci fragili portati dalla corrente a valle, di trote che nuotavano lente nelle anse del torrente, aspettando l’esca del pescatore.

Webster sollevò lo sguardo dai fogli accumulati sulla sua scrivania, respirò la brezza leggera, ne sentì la fresca carezza mormorante sulla guancia. La sua mano cercò il bicchiere di liquore, lo trovò vuoto, e lo posò di nuovo al suo posto.

Tornò a chinarsi sui fogli, prese una matita e cancellò una parola superflua.

Rilesse gli ultimi paragrafi, cercando di scoprirne gli eventuali difetti:

«Il fatto che, dei duecentocinquanta uomini che sono stati invitati a farmi visita, presumibilmente per motivi di importanza più che ordinaria, soltanto tre siano riusciti a venire, non dimostra necessariamente che, all’infuori di questi tre, tutti gli altri fossero affetti da agorafobia. Taluni possono avere avuto dei motivi più che legittimi che hanno impedito loro di accettare il mio invito. Ma questo indica una crescente ostilità da parte degli uomini che vivono sulla Terra nel modo stabilitosi dopo l’abbandono delle città, di fronte all’idea di muoversi dalle proprie case, di lasciare i luoghi familiari, e un istinto sempre più forte a restare negli ambienti e nelle proprietà che in virtù di un processo mentale inconscio hanno finito per associarsi e identificarsi con tutto ciò che di soddisfacente e gradevole può offrire la vita.

«Il risultato del processo oggi in corso non può essere previsto con sicurezza, applicandosi per il momento soltanto a una piccola parte della popolazione terrestre. Nelle famiglie più numerose la pressione economica costringe alcuni dei figli a cercare fortuna in altre parti della Terra oppure su uno degli altri pianeti. Molti altri individui cercano deliberatamente nello spazio nuove occasioni e avventure, mentre altri ancora si dedicano a professioni o commerci che rendono virtualmente impossibile un’esistenza sedentaria.»

Mise da parte la pagina, e passò all’ultima.

Era un ottimo saggio, se ne rendeva conto, ma non poteva essere pubblicato, non ancora, almeno. Forse dopo la sua morte. Nessuno, per quanto era riuscito ad appurare, era riuscito fino a quel momento a scoprire l’esistenza di quel processo, aveva scelto come punto di partenza il fatto che gli uomini lasciavano ben difficilmente le loro case. Per quale motivo, dopotutto, avrebbero dovuto lasciare le loro case?

Certi pericoli possono essere riconosciuti in…

Il visifono ronzò al suo fianco, e Webster allungò la mano per premere il bottone.

La stanza svanì intorno a lui, e Webster si trovò di fronte a un uomo seduto dietro una scrivania. Pareva quasi che fosse seduto dall’altra parte della scrivania di Webster. Era un uomo dai capelli grigi, e dagli occhi tristi dietro le lenti spesse.

Per un istante Webster si limitò a guardarlo, mentre un ricordo si faceva strada nella sua mente.

«Non è possibile che lei sia…» chiese, e l’uomo sorrise, con aria grave.

«Sono cambiato,» disse. «E anche lei è cambiato. Mi chiamo Clayborne. Ricorda? La missione medica marziana…»

«Clayborne! Quante volte ho pensato a lei. Lei è rimasto su Marte.»

Clayborne annuì.

«Ho letto il suo libro, dottore. È un vero, grande contributo alla scienza medica. Avevo pensato spesso alla necessità di scriverne uno, avrei voluto farlo io stesso, ma non ho mai avuto il tempo. E ho fatto bene a non provarci. Lei ha svolto un lavoro migliore. Specialmente per quanto riguarda il cervello.»

«Il cervello marziano,» gli disse Webster, «Mi ha sempre affascinato, con le sue caratteristiche così singolari. Temo di avere passato, in quei cinque anni, più tempo di quanto non fosse opportuno a prendere appunti e a compiere studi sull’argomento. C’era tanto altro lavoro da fare.»

«È stata una fortuna che l’abbia fatto, invece,» disse Clayborne. «È proprio per questo che adesso la chiamo. Ho un paziente… un’operazione al cervello. Soltanto lei è in grado di farla.»

Webster si sentì mancare il fiato, e le sue mani furono scosse da un tremito improvviso.

«Lo può portare qui?»

Clayborne scosse il capo.

«Non può essere spostato. Credo che lei lo conosca. Si tratta di Juwain, il filosofo.»

«Juwain!» esclamò Webster. «È uno dei miei migliori amici. Abbiamo parlato non più di due giorni fa!»

«L’attacco è stato improvviso,» disse Clayborne. «Ha chiesto di lei.»

Webster tacque, preso da un subitaneo senso di freddo… un freddo che veniva da qualche luogo lontano e gelido e sconosciuto. Un freddo che gli faceva imperlare di sudore la fronte, che gli faceva stringere i pugni, futilmente, disperatamente.

«Se parte immediatamente,» disse Clayborne, «Potrà arrivare qui in tempo. Ho già sistemato le cose con la Commissione Mondiale, perché le venga messa immediatamente a disposizione un’astronave. È necessaria la massima urgenza.»

«Ma,» disse Webster, «Ma… io non posso venire.»

«Non può venire!»

«È impossibile,» disse Webster. «E poi, in ogni caso, dubito che la mia presenza sia necessaria. Certamente lei stesso potrà…»

«Io non posso,» disse Clayborne. «Come nessuno può riuscirci, all’infuori di lei. Nessun altro conosce gli elementi necessari per agire… Ha tra le mani la vita di Juwain. Se viene, lui vivrà. Se non viene, morirà.»

«Non posso affrontare lo spazio,» disse Webster.