Eppure, pensò Webster, lui doveva lasciare quel fuoco. Come gli uomini avevano fatto con le città, due secoli prima, lui doveva voltare le spalle a quel nuovo formicaio, doveva andare. E non doveva voltarsi indietro. Non doveva lanciare un’ultima occhiata.
Lui doveva andare su Marte… o, almeno partire per Marte. Su questo non c’era alcun dubbio. Lui doveva andare.
Non sapeva, certo, se avrebbe potuto sopravvivere al viaggio, se sarebbe stato nelle condizioni di eseguire l’intervento, una volta arrivato. Non poteva dirlo. Si chiese, confusamente, se l’agorafobia poteva essere mortale. Nelle sue forme estreme, probabilmente lo era.
Allungò una mano per suonare il campanello, poi esitò. Era inutile dire a Jenkins di fare i bagagli. Avrebbe fatto da solo… sarebbe servito a tenerlo occupato, fino all’arrivo dell’astronave.
Andò nella camera da letto, prese una valigia dallo scaffale più alto di un armadio, e vide che era coperta di polvere. Cercò di soffiare via la polvere, ma la polvere rimase. Era là da troppi anni.
Mentre infilava nella valigia le cose indispensabili, la stanza cominciò a opporsi a quanto faceva, cominciò a discutere, a parlare in quella lingua muta che gli oggetti inanimati ma familiari usano per conversare con un uomo.
«Non puoi andare,» diceva la stanza. «Non puoi andare. Non mi puoi lasciare.»
E Webster ribatté, in tono per metà supplichevole, per metà colpevole:
«Io devo andare. Ma non capisci? È un amico, un vecchio amico. Tornerò indietro.»
Quando ebbe terminato di fare la valigia, Webster ritornò nel suo studio, si lasciò cadere sulla sedia.
Lui doveva andare, eppure non poteva andare. Ma quando l’astronave sarebbe arrivata, quando sarebbe arrivato il momento, lui sapeva, sapeva che avrebbe dovuto uscire dalla casa, sapeva che avrebbe dovuto andare verso l’astronave in attesa.
Doveva costringersi a rafforzare la sua determinazione. Doveva convincere la sua mente dell’irrevocabilità di quanto stava per fare. Doveva incanalare i suoi pensieri lungo binari rigidi, doveva escludere qualsiasi pensiero, qualsiasi pensiero che non fosse quello della sua partenza.
Ma gli oggetti che si trovavano nello studio cominciarono a intrufolarsi nei suoi pensieri, come se avessero fatto parte di una congiura ordita allo scopo di tenerlo laggiù. Oggetti che ora vedeva sotto una luce strana, come se li vedesse per la prima volta. Vecchi oggetti familiari che improvvisamente diventavano nuovi. L’orologio che indicava il tempo terrestre e quello marziano, i giorni del mese e le fasi della luna. La fotografia della moglie morta, sulla scrivania. Il trofeo che aveva vinto a scuola. I ricordi del suo viaggio su Marte, la cornice che racchiudeva il biglietto che gli era costato dieci dollari, durante il viaggio di andata.
Fissò tutti quegli oggetti, dapprima controvoglia, poi con ansia, per riempire la mente di ricordi da portare con sé. Li guardò considerandoli dei componenti separati di una stanza che aveva accettato, per tutti quegli anni, come un tutto unico, senza rendersi mai conto di quale moltitudine di singoli oggetti essa era fatta.
Scendeva il crepuscolo, il crepuscolo di una primavera precoce, un crepuscolo che odorava di teneri germogli di salici bagnati, di silenzio cristallino, di vento lontano.
L’astronave avrebbe dovuto arrivare già da molto tempo. Si accorse di tendere l’orecchio, cercando di sentirla arrivare, benché sapesse che non avrebbe certo potuto sentirla. Un’astronave dai motori atomici era silenziosa, tranne che al momento dell’accelerazione. Il decollo e l’atterraggio erano muti; l’astronave spiccava il volo e si posava a terra come una piuma portata dal vento, senza fare udire neppure un mormorio.
Sarebbe arrivata presto. Avrebbe dovuto arrivare presto, altrimenti lui non sarebbe più partito. Se avesse dovuto attendere ancora molto, se ne rendeva conto, la sua risoluzione si sarebbe sbriciolata come un monticello di polvere nel vento, sarebbe crollata come sabbia sotto una pioggia battente. Non avrebbe potuto mantenere ferma la sua decisione ancora per molto, di fronte alla voce silenziosa e supplichevole della stanza, di fronte allo scintillare triste del fuoco, di fronte al mormorio della terra sulla quale cinque generazioni di Webster avevano vissuto ed erano morte.
Chiuse gli occhi e cercò di combattere il brivido che gli percorreva il corpo. Non poteva lasciarsi andare adesso, si disse. Doveva resistere. Quando sarebbe arrivata l’astronave, avrebbe ancora potuto alzarsi e uscire dalla porta e dirigersi verso il portello spalancato e salire a bordo.
Si udì bussare alla porta.
«Avanti,» disse Webster.
Era Jenkins, e la luce che veniva dal caminetto riverberò silenziosamente sull’epidermide di lucido metallo.
«Mi aveva chiamato prima, signore?» chiese.
Webster scosse il capo.
«Temevo che mi avesse chiamato,» spiegò Jenkins. «E che si fosse domandato per quale motivo non avevo risposto. È accaduto un avvenimento del tutto straordinario, signore. Sono arrivati due uomini a bordo di un’astronave, e hanno detto che volevano portarla su Marte.»
«Sono arrivati,» disse Webster. «Perché non mi hai chiamato?»
Faticosamente, con uno sforzo tremendo, riuscì ad alzarsi in piedi. Mosse un passo verso la porta.
«Non mi è parso che fosse il caso di disturbarla, signore,» disse Jenkins. «Era così assurdo! E alla fine, non senza fatica, sono riuscito a far comprendere a quei due uomini che non era possibile che il signore volesse andare su Marte.»
Webster si irrigidì, sentì una morsa di gelida paura che gli afferrava il cuore. Ciecamente, tese le mani, cercando il bordo della scrivania, e si calò sulla sedia, mentre sentiva che le pareti della stanza si rinserravano intorno a lui, come una trappola che non l’avrebbe mai lasciato andare.
ANNOTAZIONI SUL TERZO RACCONTO
Per le migliaia di lettori che prediligono questo racconto, esso si distingue perché per la prima volta vi appaiono i Cani. Per lo studioso questo racconto ha un significato ancora maggiore. Fondamentalmente, si tratta di una storia di colpa e di futilità. Il crollo della razza umana continua, con l’Uomo assalito da un senso di colpa e tormentato dall’instabilità derivante dai mutamenti umani.
Il racconto tenta di razionalizzare le mutazioni, tenta perfino di spiegare l’esistenza dei Cani sotto forma di modifica della razza primordiale. Nessuna razza, dice la storia, può migliorare se non si verificano delle mutazioni, ma non troviamo nemmeno una parola sulla necessità di un certo fattore statico nella società, per assicurarne la stabilità. In tutta la leggenda appare più che evidente come la razza umana attribuisse ben poco valore alla stabilità.
Stecco, che ha minuziosameente vagliato la leggenda alla ricerca di elementi di sostegno per la sua convinzione di una derivazione umana delle storie, crede che nessun narratore di origine canina avrebbe potuto concepire ed elaborare la teoria della mutazione, un concetto che si scontra contro tutti i principi fondamentali dei Cani. Una simile idea, afferma Stecco, deve essere uscita da una mente straniera.
Salta, da parte sua, fa rilevare che in tutta la leggenda idee e punti di vista diametralmente opposti alla logica canina sono spesso presentati in una luce favorevole. Questo, afferma Salta, è semplicemente frutto del lavoro di un abile narratore… un rovesciamento dei valori che porta a effetti drammatici e sconvolgenti, tali da colpire immediatamente il lettore, e da creare una suggestione notevole; elementi presenti in tutte le storie, e che sono tra i motivi della loro fama.
Che l’Uomo sia presentato come un personaggio il quale si rende conto delle proprie manchevolezze è chiaro, senza ombra di dubbio. In questo racconto l’uomo, Grant, parla di un «canale di logica», ed è evidente come egli avverta l’esistenza di certe manchevolezze nella logica umana. Egli dice a Nathaniel che la razza umana è sempre angosciata. Egli ripone una speranza quasi infantile nella teoria juwainiana, la considera quasi l’unica cosa che possa salvare la razza umana.