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E Grant, alla fine, vedendo incombere sulla propria razza l’ombra inevitabile della distruzione, affida il destino dell’umanità a Nathaniel.

Tra tutti i personaggi che appaiono nella leggenda, Nathaniel è probabilmente l’unico che abbia qualche fondamento storico. In altre storie, che ci sono state tramandate dal remoto passato della nostra razza, il nome di Nathaniel è spesso menzionato. Benché sia evidentemente impossibile che Nathaniel abbia potuto compiere tutte le imprese che gli vengono attribuite in queste storie, è generale opinione che egli sia realmente esistito e che sia stato una figura di grande importanza. I motivi di questa importanza, ovviamente, sono perduti nell’abisso del tempo.

La famiglia umana dei Webster, che è stata presentata nel primo racconto, continua ad avere una parte di primo piano in tutta la leggenda. Benché questa possa essere una prova a favore delle teorie di Stecco, è possibile che anche la famiglia Webster non sia altro che un nuovo, abile espediente narrativo, usato per dare un’impronta di continuità a una serie di storie che, senza questo filo conduttore, potrebbero apparire abbastanza slegate tra loro.

Per chi voglia prendere troppo alla lettera la leggenda, il sottinteso secondo il quale i Cani sarebbero il frutto di un intervento umano potrebbe riuscire urtante, e forse anche sconvolgente. Vagabondo, che ha sempre considerato le storie semplici miti, ritiene che in questo racconto ci si trovi di fronte al tentativo fatto da qualche antico di spiegare l’origine della razza. Per nascondere la mancanza di conoscenza delle nostre origini, il narratore elabora una spiegazione che si identifica in una specie di intervento divino. Questo è un metodo facile e, per la mentalità primitiva, plausibile e soddisfacente, per spiegare qualcosa di cui non si sa nulla.

III

CENSIMENTO

Richard Grant si stava riposando accanto alla piccola sorgente che sgorgava dal fianco della collina e scendeva poi spumeggiando in un rapido torrente attraverso il sentiero sinuoso, quando lo scoiattolo gli passò accanto, veloce come un fulmine, e salì rapidissimo il tronco di un albero alto. Dietro lo scoiattolo, in un uragano di foglie mulinanti che l’autunno aveva fatto cadere, veniva il cagnolino nero.

Quando vide Grant, il cane si fermò di colpo, e rimase a guardarlo, scodinzolando, con gli occhi scintillanti di gioia.

Grant sorrise.

«Ciao, piccolo,» disse.

«Ciao,» disse il cane.

Grant si alzò di scatto, dal comodo letto di foglie sul quale si era disteso, e rimase a bocca aperta. Il cane rise, con la grossa lingua rossa penzolante dalla bocca.

Grant indicò l’albero col pollice.

«Il tuo scoiattolo è lassù.»

«Grazie,» disse il cane. «Lo so. Ne sento l’odore.»

Sbalordito, Grant si guardò rapidamente intorno, sospettando che qualcuno si stesse prendendo gioco di lui. Qualche abile ventriloquo, probabilmente. Ma non c’era nessuno in vista. Il bosco era deserto, c’erano soltanto il cane e lui, la sorgente gorgogliante, lo scoiattolo che squittiva nascosto tra le fronde dell’albero.

Il cane si fece più vicino.

«Il mio nome,» disse, «È Nathaniel.»

Parlava. Non c’era dubbio. Erano parole chiare, parevano pronunciate da una gola umana, solo che erano pronunciate con lentezza, come le avrebbe pronunciate qualcuno che ancora stesse studiando la lingua. E c’era un accento un po’ strascicato, bizzarro, che non riusciva a identificare, una certa inflessione insolita.

«Abito sulla collina,» dichiarò Nathaniel, «Con i Webster.»

Si accucciò a terra, agitò la coda, spazzando via qualche foglia gialla caduta. Appariva felice, molto felice della vita e dell’autunno e della sorgente e dello sconosciuto che aveva incontrato.

Grant improvvisamente fece schioccare le dita.

«Bruce Webster! Adesso capisco. Avrei dovuto pensarci subito. Sono felice di conoscerti, Nathaniel.»

«E tu chi sei?» chiese Nathaniel.

«Io? Io sono Richard Grant, numeratore.»

«Cos’è un nume… numero…»

«Un numeratore è una persona che conta la gente,» spiegò Grant. «Sto facendo un censimento.»

«Ci sono tante parole,» disse Nathaniel, «Che non riesco a dire.»

Si alzò, si avvicinò alla sorgente, e cominciò a bere lambendo rumorosamente l’acqua con la grande lingua rossa. Quando ebbe finito di bere, tornò ad accucciarsi accanto all’uomo.

«Vuoi sparare allo scoiattolo?» disse.

«Vuoi che lo faccia?»

«Ma certo,» disse Nathaniel.

Ma lo scoiattolo se n’era andato. Uomo e cane girarono intorno all’albero, insieme, guardando tra i rami che l’autunno aveva cominciato a spogliare. Lo scoiattolo non c’era più. Non videro sporgere la lunga coda dalle macchie di foglie gialle, non videro grandi occhi umidi guardarli dall’alto di un ramo. Mentre loro erano stati intenti a parlare, lo scoiattolo era fuggito.

Nathaniel non riuscì a nascondere la sua delusione, ma cercò di prendere la cosa con filosofia.

«Perché non passi la notte da noi?» lo invitò. «Così, domani, potremmo andare a caccia. Potremmo star fuori per tutto il giorno.»

Grant ridacchiò.

«Non vorrei dare troppo disturbo. Sono abituato ad accamparmi all’aperto, sai.»

Nathaniel volle insistere.

«Bruce sarebbe molto contento di vederti. E il nonno non ci farà caso, vedrai. E poi sono molte le cose che gli succedono intorno, e delle quali non si accorge, sai.»

«Chi è il nonno?»

«Il suo vero nome è Thomas,» disse Nathaniel. «Ma lo chiamiamo tutti nonno. È il padre di Bruce. Adesso è molto vecchio. Non immagini neppure quanto è vecchio, il nonno. Sta seduto tutto il giorno a pensare a una cosa accaduta tanto tempo fa.»

Grant annuì.

«Lo so di che si tratta, Nathaniel. Juwain.»

«Sì, proprio questo,» ammise Nathaniel. «Che cosa significa?»

Grant scosse il capo.

«Vorrei potertelo dire, Nathaniel. Vorrei saperlo.»

Si mise lo zaino in spalla, si chinò ad accarezzare il cane, grattandolo dietro l’orecchio. Nathaniel fece una smorfia di pura felicità.

«Grazie,» disse, e s’avviò per il sentiero.

Grant lo seguì.

Thomas Webster sedeva sulla poltrona a rotelle, sul grande prato ingiallito d’autunno, e guardava lontano, verso le colline addolcite dalla penombra della sera.

Compirò ottantasei anni, domani, pensava. Ottantasei anni. Sono lunghi, lunghi. Una vita infernalmente lunga da vivere. Troppo lunga, per un uomo. Soprattutto quando quest’uomo non può più camminare, e la sua vista va sempre peggio.

Elsie farà preparare per me una stupida torta con tante candele sopra, e i robot verranno tutti insieme a farmi un regalo e i cani di Bruce entreranno in camera mia ad augurarmi cento di questi giorni, dimenando la coda. E ci sarà anche qualche chiamata visifonica… forse non molte, però. E io mi batterò il petto e dirò che sono sicuro di arrivare a cento anni e tutti sorrideranno senza farsi vedere da me, e diranno, «sentite quel vecchio stupido.»

Ottantasei anni, e c’erano due cose che io volevo fare. Una l’ho fatta, l’altra no.

Un corvo passò gracchiando sopra una collinetta lontana, e si tuffò solennemente nelle ombre della valle. Da lontano, molto lontano, verso il fiume, giungeva lo starnazzare di un branco di anatre selvatiche.

Tra poco sarebbero spuntate le prime stelle. Spuntavano presto, in quel periodo dell’anno. Gli piaceva guardare le stelle. Le stelle! Batté le mani sui braccioli della poltrona, con orgoglio. Le stelle, per Dio, erano il suo pane. Un’ossessione? Forse… ma almeno erano qualcosa che serviva a cancellare la macchia di molti anni prima, uno schermo che proteggeva la famiglia dalle insinuazioni degli storici impiccioni. E anche Bruce contribuiva a cancellare quella macchia. I suoi cani…