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«Io lavoro sui mutanti,» gli spiegò Webster. «Ho dedicato la vita intera al problema delle mutazioni.»

«In questi ultimi tempi sono apparse delle strane manifestazioni culturali,» disse Grant. «Sono apparse qua e là, in maniera del tutto frammentaria, ma si tratta comunque di cose senza precedenti. Composizioni letterarie che portano l’impronta inconfondibile di personalità nuove e diverse da quelle alle quali siamo avvezzi. Musiche le quali si distaccano completamente dalla tradizione, seguono strade nuove e spesso del tutto incomprensibili. Opere d’arte che non assomigliano a nulla di ciò che noi conoscevamo fino a oggi. E quasi tutte queste opere sono anonime, oppure rimangono celate da uno pseudonimo.»

Webster rise.

«Una cosa simile, naturalmente, rappresenterà un mistero impenetrabile per la Commissione Mondiale!»

«Non è questo l’aspetto più preoccupante, per la Commissione,» spiegò Grant. «La Commissione Mondiale non si preoccupa tanto dell’arte e della letteratura, quanto di altre cose… cose che non si mostrano alla luce. Se si sta manifestando una specie di rinascimento bucolico, è naturale che esso appaia, all’inizio, sotto forma di nuove manifestazioni artistiche e letterarie. Ma, come la storia insegna, un rinascimento non riguarda soltanto l’arte e la letteratura.»

Webster sprofondò ancora di più nella soffice poltrona, e appoggiò il mento sulle mani congiunte.

«Credo di capire,» disse, «Quello che lei vuole intendere.»

Rimasero così, seduti in silenzio per lunghi minuti, ascoltando il crepitio dei ceppi nel caminetto, e il respiro freddo e remoto di un vento d’autunno che accarezzava leggero le foglie degli alberi, fuori.

«C’è stata un’occasione, una volta,» disse Webster, nel silenzio fatto di tanti piccoli fruscii, e parlò a bassa voce, come se parlasse soltanto a se stesso. «Un’occasione per raggiungere un ordine d’idee completamente nuovo, per ottenere qualcosa che avrebbe spazzato via tutto il ciarpame di quattromila anni di pensiero umano. Un uomo ha soffocato sul nascere questa occasione.»

Grant si agitò, nervosamente, poi si irrigidì, temendo che Webster avesse notato il suo movimento.

«Quell’uomo,» disse Webster. «Era mio nonno.»

Grant capì che, a questo punto, avrebbe dovuto dire qualcosa, capì che non avrebbe potuto restare là in silenzio, fermo sulla sua poltrona.

«Forse Juwain s’ingannava,» disse. «Forse non aveva trovato una nuova filosofia.»

«Questo è un pensiero,» dichiarò Webster, «Al quale abbiamo dovuto ricorrere spesso, per consolarci. Ma è molto improbabile. Juwain era un grande filosofo marziano, forse il più grande che Marte abbia mai generato. Io non ho dubbi: se fosse sopravvissuto, avrebbe potuto sviluppare quella nuova filosofia. Ma non è sopravvissuto. Non è sopravvissuto perché mio nonno non ha potuto andare su Marte.»

«Non è stata colpa di suo nonno,» disse Grant. «Lui ha tentato. L’agorafobia è una cosa che l’uomo non può combattere…»

Webster, con un gesto, interruppe le parole di Grant.

«Ormai le cose sono andate così. Non possiamo far tornare il passato, per cambiarlo come ci aggrada. Dobbiamo accettare quello che è stato, e partire da questo punto di partenza. E dato che la colpa è stata della mia famiglia, dato che è stato mio nonno a…»

Grant spalancò gli occhi, scosso dal pensiero che gli era venuto in mente.

«I cani! Ecco perché…»

«Sì, i cani,» disse Webster.

Da molto lontano, dal torrente, venne un suono lamentoso, uno strano pianto che si univa al vento che mormorava tra gli alberi.

«Un procione,» disse Webster. «I cani lo sentiranno e faranno di tutto per uscire.»

Il richiamo giunse di nuovo, e parve più vicino… ma forse si trattava soltanto di uno scherzo dell’immaginazione.

Webster s’era rialzato, sulla poltrona, e ora sedeva proteso in avanti, e fissava le fiamme che guizzavano nel caminetto, e che mandavano strani bagliori tutt’intorno.

«Dopotutto, perché no?» chiese. «Un cane possiede una personalità. Se ne può rendere conto vedendo ogni cane che incontra. È una cosa che si avverte, che esiste. Non ci sono due cani perfettamente uguali, come carattere e come comportamento. E tutti i cani sono intelligenti, in misura maggiore o minore. E si tratta delle due sole cose necessarie… una personalità consapevole e una certa misura d’intelligenza.

«I cani non hanno mai avuto una possibilità equa di progredire, ecco tutto. Avevano due gravi svantaggi. Non parlavano e non potevano camminare eretti, e, non potendo camminare eretti, non hanno avuto la possibilità di sviluppare mani. Se non ci fossero questi due elementi, la parola e le mani, noi potremmo essere cani e i cani potrebbero essere uomini.»

«Non avevo mai considerato la cosa sotto questo aspetto,» disse Grant. «E non avevo mai considerato i suoi cani come una razza pensante…»

«No,» disse Webster, e c’era una traccia di amarezza nelle sue parole. «No, certo. Lei considerava i cani come li considera il resto del mondo. Una curiosità, uno spettacolo da circo, un passatempo divertente e bizzarro. La vecchia idea del fenomeno da baraccone, del cane sapiente… che, questa volta, sa perfino parlare.

«Ma non è tutto qui, Grant. Le giuro che non è tutto qui. Fino a questo punto della strada, l’Uomo è andato avanti da solo. È stato una specie intelligente e pensante, che ha camminato da sola sulla via del tempo e del progresso. Pensi! Pensi a quanto sarebbe stata più rapida e più breve la strada, se invece di una sola specie ce ne fossero state due… due razze pensanti e intelligenti e amiche, unite da vincoli antichi e spinte da un comune impulso di progresso, decise a vivere e a lavorare insieme. Perché, vede, due razze diverse non penserebbero allo stesso modo. Avrebbero due modi di vedere il mondo, due concetti della realtà completamente diversi, da confrontare tra loro, da discutere per un comune fine di progresso. Dove la mente di una razza non potrebbe arrivare, ci arriverebbe la mente dell’altra razza. È l’antica storia delle due teste spinte da un solo motivo, e capaci di produrre un lavoro intellettuale infinitamente superiore. Per avere una buona medaglia, Grant, ci vogliono due facce.

«Rifletta, Grant, su quello che potremmo avere. Una mente diversa da quella umana, ma capace di lavorare con la mente umana, e disposta a farlo. Questa mente potrebbe vedere e comprendere cose che l’uomo non sa e non può vedere.»

Tese le mani verso le fiamme crepitanti del focolare, mani dalle lunghe dita, con le nocche ossute.

«I cani non sapevano parlare, Grant, e io ho dato loro la parola. Non è stato facile, perché la lingua e la gola di un cane non sono state fatte per parlare. Ma la chirurgia ha operato il prodigio… dapprima artificialmente, facendo violenza sulla natura… la chirurgia e il trapianto dei tessuti. Ma adesso… adesso spero, credo… certo è troppo presto per dirlo, ma…»

Grant si protese avanti, teso, ansioso.

«Lei intende dire che i cani sono in grado di trasmettere ai loro figli i mutamenti che lei ha operato. Lei intende dire che esistono le prove dell’acquisizione di un carattere ereditario per le correzioni da lei apportate all’opera della natura.»

Webster scosse il capo.

«È ancora troppo presto per affermarlo con certezza. Fra vent’anni, forse, le potrò dare una risposta.»

Prese la bottiglia di brandy dal tavolo, la tese verso il bicchiere di Grant.

«Grazie,» disse Grant.

«Sono un ospite davvero deplorevole,» gli disse Webster. «Lei avrebbe dovuto servirsi da solo.»

Sollevò il bicchiere controluce, in modo che i guizzi del focolare facessero scintillare il liquido ambrato.

«Il materiale sul quale ho lavorato era buono. Un cane è intelligente. Più intelligente di quanto lei creda. Normalmente, il cane medio riconosce almeno una cinquantina di parole. Non è insolito che ne riconosca un centinaio. Se aggiunge altre cento parole, avrà già un vocabolario essenziale ed efficace. Lei avrà notato, immagino, che Nathaniel si serve soltanto di parole semplici. Praticamente, le parole essenziali della nostra lingua.»