Grant annuì.
«Sì, quasi tutte di due, tre sillabe al massimo. Mi ha detto che c’erano molte parole che lui non sapeva dire.»
«Ci sono tante altre cose da fare,» disse Webster. «Tante, tante altre cose. Leggere, per esempio. Un cane non vede nel modo in cui io e lei vediamo. Ho fatto degli esperimenti con delle lenti di contatto… per correggere la vista canina, in modo che i loro occhi potessero vedere come i nostri. E se questo esperimento non avrà successo, esiste sempre un altro sistema. L’uomo deve riuscire a comprendere la vista dei cani… deve vedere con i loro occhi, per stampare dei libri che un cane possa leggere.»
«E i cani,» domandò Grant, «Che cosa ne pensano?»
«I cani?» disse Webster. «Ci creda o no, Grant, loro si divertono un mondo. Vivono la loro vita in perfetta felicità.»
Guardò nel focolare, e i suoi occhi fissarono le fiamme cangianti, e per qualche istante rimase in silenzio.
Preceduto da Jenkins, Grant salì le scale per raggiungere la sua camera da letto, ma quando uomo e robot passarono davanti a una porta semiaperta una voce li chiamò.
«È lei, straniero?»
Grant si fermò, si girò di scatto, cercando di scoprire la provenienza di quella voce.
Jenkins disse, in un mormorio sommesso:
«È il vecchio padrone, signore. Spesso non riesce a prendere sonno.»
«Sì,» disse Grant, a voce alta.
«Ha sonno?» domandò la voce.
«Non molto,» rispose Grant.
«Allora entri. Può restare con me per un poco,» disse il vecchio.
Thomas Webster era seduto sul letto, con la schiena appoggiata al cuscino, e una vecchia berretta da notte a striscie calcata fin sulla fronte. Vide che Grant la stava guardando, stupito.
«Sto diventando calvo,» disse raucamente il vecchio, «Non mi sento a mio agio se non ho qualcosa che mi copre la testa. E non posso portare il cappello a letto.»
Si rivolse a Jenkins, allora, e disse, con voce aspra:
«Cosa stai facendo lì impalato? Non vedi che ha bisogno di bere qualcosa?»
«Sì, signore,» disse Jenkins, e scomparve.
«Si sieda,» disse Thomas Webster. «Si sieda e mi stia ad ascoltare per un poco. Parlare mi aiuterà a prendere sonno. E, inoltre, non capita tutti i giorni di vedere una faccia nuova, qui.»
Grant obbedì, e si mise a sedere.
«Che cosa ne pensa di quel mio figliolo?» chiese il vecchio.
Grant sobbalzò, sorpreso dall’insolita domanda.
«Be’, credo che sia fantastico… Il lavoro che sta facendo sui cani…»
Il vecchio ridacchiò.
«Lui e i suoi cani! Le ho mai raccontato di quella volta che Nathaniel se la prese con una puzzola? Ma certo che non gliel’ho mai raccontato. Le avrò detto sì e no due parole.»
Passò le mani sulla coperta, accarezzando la stoffa con lunghe dita nervose.
«Ho un altro figlio, sa. Allen. L’ho sempre chiamato Al. Questa notte si trova più lontano dalla Terra di quanto nessun uomo sia mai stato. Sta viaggiando verso le stelle.»
Grant annuì.
«Lo so. L’ho letto. La spedizione ad Alpha Centauri.»
«Mio padre era un medico, un chirurgo,» disse Thomas Webster. «Voleva che diventassi chirurgo anch’io. Credo di avergli spezzato il cuore, quando decisi di non abbracciare la professione medica. Ma se avesse potuto leggere nel futuro, se avesse potuto vivere stanotte, sarebbe stato orgoglioso di noi.»
«Lei non deve stare in pena per suo figlio,» disse Grant. «Lui…»
Il vecchio lo mise a tacere con un’occhiataccia.
«Sono stato io, io, a costruire quell’astronave. L’ho progettata in ogni particolare, l’ho vista nascere e crescere. Se si tratta soltanto di viaggiare nello spazio, se non ci sono altre incognite, andrà dove deve andare, farà in pieno il suo dovere. E il ragazzo è in gamba. Potrebbe pilotare quella bagnarola attraverso tutto l’inferno, come se viaggiasse dalla Terra alla Luna.»
Si curvò verso Grant, rialzandosi ancora di più sul letto, e il copricapo ballonzolò con il movimento, e la punta ricadde sul cuscino.
«E ho un altro motivo per credere che il ragazzo riuscirà ad arrivare lassù e a tornare indietro. Vede, si tratta di una cosa alla quale, sul momento, non dedicai una grande attenzione. Ma poi me ne sono ricordato, ci ho riflettuto sopra, chiedendomi se non avesse potuto significare… bene, se non avesse potuto essere…»
Ansimò un poco, raucamente, per riprendere fiato.
«Guardi che non sono superstizioso.»
«Certo che no,» disse Grant.
«Ci può scommettere, dico, che non sono superstizioso! Ci può scommettere!» esclamò Webster.
«Si tratta forse di un segno?» suggerì Grant. «Di una sensazione, di un presentimento?»
«Niente di tutto questo,» dichiarò il vecchio. «Si tratta di una certezza quasi assoluta, invece. La certezza che il destino dev’essere con me. Che il mio destino è stato, fin dalla nascita, quello di costruire un’astronave capace di percorrere tutta la distanza dalla Terra alle stelle, e ritornare attraverso gli spazi siderali. Che qualcuno, o qualcosa, ha deciso che era il momento, per l’Uomo, di andare fino alle stelle per vedere cosa c’era lassù… e che qualcuno, o qualcosa, ha voluto anche dare una mano all’Uomo, per raggiungere questo scopo.»
«Lei sembra parlare di un fatto realmente accaduto,» disse Grant. «A sentirla, pare quasi che sia accaduto qualcosa di concreto, qualcosa che l’ha convinta dell’inevitabile successo della spedizione.»
«Ci può scommettere anche le stringhe delle scarpe,» disse Webster. «È proprio quello che voglio dire, né più né meno. La cosa è accaduta vent’anni fa, nel prato che si trova davanti a questa casa.»
Si rialzò ancora di più, ansimò raucamente, sbuffò, cercando l’aria che pareva mancare nei suoi polmoni.
«Ero a terra, capisce, con il morale sotto i tacchi. Il sogno si era infranto, e quando un sogno si è infranto, i cocci che vede per terra sono quelli del suo morale. Anni e anni passati per niente. Il principio fondamentale che avevo elaborato, la formula che era nata nel corso di anni e anni di studio e di lavoro, e che avrebbe permesso di raggiungere la velocità necessaria per il volo interstellare… bene, semplicemente, non funzionava. Non funzionava, capisce? E il peggio era che io sapevo di avere quasi ragione. Sapevo che rimaneva soltanto una piccolissima cosa, una sola, una correzione che doveva essere apportata alla teoria. Ma non riuscivo a scoprire l’errore. Cercavo e cercavo, e l’errore era sempre lì, inafferrabile e irridente.
«Così ero seduto là fuori, sul prato, e stavo a compatirmi per il mio insuccesso, e avevo davanti a me un disegno del progetto. Vivevo con quel progetto, capisce? Lo portavo sempre con me, dovunque andassi, forse perché credevo confusamente che, a furia di guardarlo, l’errore mi sarebbe balzato agli occhi così, spontaneamente. Lei sa che a volte questo succede. La mente gioca degli strani scherzi.»
Grant annuì.
«Mentre stavo seduto sul prato, un uomo si avvicinò. Uno dei vagabondi delle colline. Lei sa cos’è un vagabondo delle colline?»
«Certo,» disse Grant.
«Be’, questo tizio si avvicinò a me. Uno strano soggetto, che pareva tutto snodato, e camminava tranquillamente, come se non avesse un solo pensiero al mondo. Si fermò alle mie spalle e guardò sopra la mia spalla e mi chiese cos’era quello che tenevo sulle ginocchia.
«’Un motore interstellare’, gli risposi.
«Lui allungò la mano e prese il disegno e io glielo lasciai prendere. Dopotutto, a che serviva negarglielo? Lui non avrebbe potuto capire una virgola, del progetto, e poi il progetto era inutile, perché il motore non funzionava.