«E allora lui mi restituì il progetto e mi indicò col dito un punto. ’Ecco il suo guaio,’ mi disse. E poi si voltò e se ne andò di gran fretta, e io rimasi seduto a guardarlo come un allocco, troppo sbalordito per dire una sola parola, perfino per chiamarlo, per dirgli di tornare indietro.»
Il vecchio si raddrizzò ancora, rimase immobile sul letto, senza più l’appoggio del cuscino, e guardò la parete, mentre la berretta gli era andata di traverso e gli dava un aspetto buffo e patetico a un tempo. Fuori il vento passava tra le foglie degli alberi, con un sospiro cupo e profondo, un sospiro che ricordava il silenzio e la solitudine di spazi lontani, di alberi secchi, d’inverno vicino, di distese impenetrabili. E in quella stanza bene illuminata parvero discendere delle ombre, anche se Grant sapeva che non c’erano ombre, che non c’erano zone oscure intorno a lui.
«È mai riuscito a ritrovarlo?» chiese Grant.
Il vecchio scosse il capo.
«No. Neppure una traccia,» disse.
Jenkins entrò dalla porta con un bicchiere in mano, un bicchiere che posò sul comodino, accanto al letto.
«Tornerò, signore,» disse a Grant, «Per accompagnarla nella sua camera.»
«Non ce ne sarà bisogno,» fece Grant. «Basta che tu mi dica dove si trova.»
«Come vuole, signore,» disse Jenkins. «È la terza, in fondo al corridoio. Lascerò accesa la luce e la porta socchiusa.»
I due uomini rimasero seduti in silenzio, ciascuno perduto nei suoi pensieri, ascoltando i passi del robot che si allontanavano nel corridoio, nella notte.
Il vecchio lanciò un’occhiata al bicchiere di whisky e tossì, per schiarirsi la voce.
«Adesso mi pento di non avere chiesto a Jenkins di portarne un bicchiere anche a me,» disse.
«Be’, non c’è niente di male,» disse Grant. «Prenda il mio bicchiere. Non ne ho realmente bisogno, sa.»
«Ne è sicuro?»
«Certo, Stia tranquillo.»
Il vecchio tese la mano, prese il bicchiere, lo assaggiò cautamente, fece un lungo sospiro di soddisfazione.
«Ah, finalmente… ecco quella che io chiamo una bevanda decente,» disse. «Il dottore ordina a Jenkins di servirmele sempre allungate.»
C’era qualcosa, nella casa, che entrava nel sangue e sotto la pelle, che dava i brividi e provocava disagio, senza che se ne capisse realmente il perché. Qualcosa che dava a un ospite la sensazione di essere un estraneo… forse un intruso… uno straniero pieno di disagio e nudo e indifeso nel quieto mormorio delle alte pareti.
Seduto sul bordo del letto, Grant si tolse lentamente le scarpe, e le lasciò cadere sul tappeto.
Un robot che aveva servito la famiglia per quattro generazioni, e che parlava di uomini morti da molto tempo come se avesse portato loro un bicchiere di whisky soltanto il giorno prima. Un vecchio in ansia per un’astronave che scivolava silenziosa attraverso le tenebre dello spazio, oltre i confini del sistema solare. Un altro uomo che accarezzava il sogno di un’altra razza, una razza che avrebbe potuto camminare accanto all’uomo, la zampa nella mano, sulla strada polverosa e interminabile del destino.
E sopra ogni cosa, inconfondibile benché il suo nome non venisse quasi mai pronunciato, l’ombra oscura di Jerome A. Webster… l’uomo che aveva abbandonato un amico nel momento del bisogno, un medico che aveva tradito il giuramento della sua professione, un chirurgo che aveva deluso la fiducia che altri avevano riposto in lui.
Juwain, il filosofo di Marte, era morto, alla vigilia di una grande scoperta, perché Jerome A. Webster non aveva potuto lasciare quella casa, perché l’agorafobia lo aveva tenuto incatenato a poche miglia quadrate di terreno.
Scalzo, Grant attraversò la stanza e si avvicinò al tavolo sul quale Jenkins aveva posato il suo zaino. Allentò le cinghie, le aprì, aprì lo zaino, ed estrasse un voluminoso incartamento. Poi, finalmente, tornò a sedersi sul letto, e cominciò a sfogliare in fretta un grande fascio di fogli.
Dati, centinaia di fogli coperti di dati. Nomi, cifre, località. Le storie di centinaia di vite umane, trascritte e annotate su quei fogli. Non solo le cose che quegli uomini gli avevano detto, o le domande alle quali avevano risposto, ma decine e decine di altre piccole cose… cose che aveva ricavato dall’osservazione, dalle lunghe ore trascorse a sedere e a osservare, dal fatto di avere vissuto con quegli esseri umani per un’ora o per un giorno.
Perché la gente che lui riusciva a scoprire e a raggiungere tra quelle colline interminabili e boscose e impervie lo accettava. Faceva parte dei suoi compiti il farsi accettare. E loro lo accettavano perché lui veniva a piedi, coperto di polvere e graffiato dai rovi e dagli sterpi, perché veniva stanco e affaticato, con uno zaino sulle spalle. In lui non si vedeva traccia delle cose nuove e moderne che l’avrebbero fatalmente isolato da quella gente, a lui non erano rimaste tracce di quella polvere del progresso ch’era tanto difficile lavare, che lo avrebbe separato da coloro che doveva visitare, che l’avrebbe circondato, per gli occhi semplici di quella gente, di un alone di sospetto. La sua polvere era la polvere della terra, e quella polvere si poteva lavare. Era faticoso, estenuante compiere un censimento a quel modo, ma era l’unico modo per compiere il lavoro che la Commissione Mondiale desiderava… e del quale aveva assoluto bisogno.
Perché, dove e quando lui non lo sapeva e neppure poteva sospettarlo, ci sarebbe stato un uomo che, studiando dei documenti uguali a quelli che si trovavano sul suo letto, avrebbe trovato la cosa che cercava, avrebbe trovato l’indizio, forse appena accennato, di una vita che divergeva, poco o molto, dal normale comportamento umano. Sarebbe stato forse un uomo come lui a trovare l’indizio, a scoprire il segno, a notare la discrepanza. E avrebbe potuto trattarsi di poco. Qualche segno appena percettibile di un comportamento diverso, l’indizio rivelatore che avrebbe messo una vita sola in contrasto con quelle di tutti gli altri.
Le mutazioni umane non erano né insolite né sconosciute, naturalmente. Molte erano note, e appartenevano a uomini che detenevano posizioni altissime nel mondo. Quasi tutti i membri della Commissione Mondiale erano dei mutanti, ma, come negli altri casi, i talenti e le qualità derivati dalle mutazioni, nel loro caso, erano stati modificati e incanalati dal comportamento generale dei cittadini del mondo, grazie a un condizionamento inconscio che aveva modellato i loro pensieri e le loro reazioni adattandoli ai pensieri e alle reazioni della maggioranza degli uomini.
C’erano sempre stati dei mutanti; in caso contrario la razza non avrebbe mai potuto avanzare, i primi uomini sarebbero rimasti nel buio caldo delle caverne, le grandi scoperte non avrebbero avuto luogo, il progresso sarebbe rimasto solo una parola fantasma, mai scritta sul grande libro del mondo. Ma fino all’ultimo secolo essi non erano stati riconosciuti per quello che erano. Prima di allora i mutanti erano stati soltanto dei grandi uomini d’affari o dei grandi scienziati o dei grandi delinquenti. O anche degli eccentrici che non avevano mai ottenuto qualcosa di più del disprezzo e della commiserazione, da una razza che non tollerava alcuna divergenza dalla norma.
I mutanti che avevano avuto successo si erano adattati al mondo che li circondava, avevano piegato i loro poteri mentali superiori in modo che potessero essere incanalati entro schemi di azione accettabili dalla massa e dalla mentalità comune. E questa necessità aveva opacizzato la loro splendida utilità, aveva limitato le loro capacità, aveva impoverito la loro abilità, a causa delle restrizioni necessarie per vivere in un mondo di uomini mediocri.
Anche in quel tempo le capacità dei mutanti conosciuti come tali erano soffocate, inconsciamente, da uno schema mentale che era stato costruito dalle circostanze… un ’canale di logica’ che era una cosa terribile.