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«C’è ancora tanto di quel lavoro da fare,» annunciò. «Ma non si fa, e non si può fare, accidenti. Quei ragazzi non valgono neppure la fatica di farli crescere, loro. A caccia dalla mattina alla sera, quando non sono a pesca. E intanto le macchine stanno lì ad arrugginire, e vanno in malora. Joe non si vede da queste parti da un’eternità. È un genio per le macchine, Joe. Non ce n’è una che lui non sappia mettere a posto.»

«Joe è tuo figlio?»

«No. È un mezzo matto che vive nei boschi, chissà dove. Arriva lui e ti ripara quello che non va, e poi se ne va a piedi com’è venuto. Dirà sì e no due parole, sentirlo parlare è un mezzo miracolo. Non aspetta neppure di essere ringraziato, non te ne dà il tempo. Si alza e se ne va. Sono anni che fa così. Il nonno mi ha raccontato della volta che l’ha visto per la prima volta, quando era un ragazzo, il nonno. Adesso Joe viene ancora.»

Grant sbalordì:

«Aspetta un momento. Non può trattarsi dello stesso uomo.»

«Vedi,» disse il vecchio Dave. «È questo il fatto strano. Tu non ci crederai, straniero, ma Joe non è invecchiato per niente da quando l’ho visto la prima volta. È un tipo strano, questo sì. Se ne raccontano di storie pazze sul suo conto. Il nonno parlava sempre di come Joe pasticciava con le formiche.»

«Formiche!»

«Sicuro. Ha costruito una specie di serra sopra un formicaio e l’ha riscaldata, quand’è venuto l’inverno. Almeno così diceva sempre il nonno. Giurava e spergiurava di avere visto con i suoi occhi tutto quanto, serra e formicaio. Ma io non ho mai creduto a una parola di quanto ho sentito. Il nonno era il più gran bugiardo che si potesse trovare sulla faccia della terra. Perfino lui lo ammetteva.»

Si udì la voce bronzea d’una campana, che mandava il suo richiamo dall’avallamento pieno d’alberi inondati dal sole, dal quale si levava il fumo del comignolo nascosto.

Il vecchio scese agilmente dalla staccionata, vuotò il fornello della pipa, e piegò il capo per guardare la posizione del sole.

La campana suonò di nuovo, e quel suono fu come un boato nella silenziosa immobilità dell’autunno dorato.

«È Ma’ che chiama,» disse il vecchio Dave. «È pronto da mangiare. Spezzatino di coniglio, ci scommetto. Questo si chiama mangiare, e se non l’hai mai assaggiato, hai perso molto. Che ne dici? Se hai fame, sbrighiamoci. Io di fame ne ho anche per due.»

Un individuo pazzo che appariva quando c’erano da riparare degli oggetti, e non aspettava neanche un grazie. Un uomo che aveva lo stesso aspetto di cento anni prima. Un tipo che costruiva una serra su di un formicaio e la riscaldava, quando cadeva l’inverno.

Non aveva senso, eppure il vecchio Baxter non aveva mentito. Non si trattava semplicemente di un’altra di quelle favole che erano nate tra i boschi e le colline, che erano nate da quella semplice gente dei campi e della montagna, e che si erano diffuse così inarrestabili come tutte le favole, fino a creare quello che assomigliava moltissimo a un nuovo folklore.

No, il vecchio Baxter era stato forse il più grande bugiardo del mondo, o soltanto il più grande bugiardo di sette contee, o soltanto il più grande bugiardo della sua casa; ma quella storia pazza non usciva da quelle leggende, da quelle storie e da quelle favole che in ogni tempo e in ogni luogo formavano il folklore, i costumi e la vita di un popolo, qualunque esso fosse… come questo popolo orgoglioso e ospitale che abitava i boschi e le montagne.

Ogni cosa, nel folklore, aveva un’aura familiare, un’atmosfera riconoscibile; una favola assomigliava all’altra, c’era sempre uno schema definito, riconoscibile, nelle leggende, che le faceva riconoscere come tali e permetteva anche di intuire, sotto l’apparenza fantastica e magica e irreale, la comune realtà dalla quale tutte erano nate. Ma in questo caso, non c’era nulla di tutto questo. Non c’era nulla di divertente, nulla di concreto, anche nella mente dei ’vagabondi delle colline’, nel coprire e riscaldare un formicaio. Per essere una favola, o anche soltanto una storia buffa, ci sarebbe voluto qualcosa d’altro… una morale, per la favola, una battuta comica, per la storia buffa. E invece non c’era alcuna morale, e non c’era alcuna battuta comica, nella storia dell’uomo che riscaldava il formicaio.

Grant si agitò, nervosamente, sul materasso imbottito di foglie di granoturco, e tirò su, fino al mento, la pesante coperta imbottita.

Come sono strani, pensò, i luoghi dove dormo. Come cambiano. Com’è buffo il contrasto. Questa notte sopra un materasso di foglie di granturco, e ieri notte all’aperto, sotto la luce delle stelle, in un accampamento fatto di un uomo, di uno zaino e di un fuoco; e la notte prima, invece, sopra un soffice materasso, tra lenzuola fresche e profumate di bucato, nella casa dei Webster.

Il vento riempì con il suo ululato l’avallamento nascosto dagli alberi, e si fermò nella sua fredda avanzata per fare sbattere un abbaino rotto, sul tetto della casa, e poi tornò indietro per farlo sbattere di nuovo. Un topo fece udire il suo scalpiccio ansioso, in qualche angolo oscuro. Dal letto che si trovava nell’angolo a sinistra veniva il rumore placido di un respiro regolare… erano i due bambini più piccoli dei Baxter, che stavano dormendo il sonno felice della loro età.

Un uomo che appariva quando c’erano da riparare degli oggetti, e non aspettava neanche un grazie. Come era accaduto a lui, quando gli si era guastata la pistola. Come era accaduto per anni e anni ai Baxter, con le loro vecchie macchine agricole che il tempo e l’usura e le stagioni avrebbero dovuto fermare già da molto tempo. Un tipo pazzo che si chiamava Joe, che non invecchiava e che aveva un vero genio per le macchine.

Un pensiero entrò nella mente di Grant; e Grant lo respinse, riuscì a reprimerlo. Non c’era bisogno di farsi delle speranze. Devi curiosare a destra e a manca, Grant, devi ficcare il naso qua e là, senza parere, devi fare delle domande caute, devi tenere gli occhi aperti, Grant. Non mostrarti troppo curioso, non fare delle domande troppo precise, altrimenti staranno zitti, chiuderanno la bocca come una saracinesca, e non saprai più niente.

Strana gente, quei vagabondi delle colline. Gente che non aveva parte alcuna nel progresso, che rifiutava il progresso, gente che non voleva immischiarsene e aveva preferito una vita primitiva alle comodità di una nuova utopia. Gente che aveva voltanto la schiena alla civiltà, che era ritornata alla vita libera della terra e della foresta, del sole e della pioggia.

C’era tanto posto per loro lassù, sulla Terra, c’era tanto, tanto posto per tutti, perché la popolazione della Terra si era paurosamente assottigliata negli ultimi duecento anni, prosciugata dai pionieri che erano partiti per colonizzare nuovi pianeti, un volo di spore umane, un gregge di umanità partito per modellare gli altri mondi del sistema solare secondo le esigenze dell’Uomo e della sua economia.

C’era posto a volontà… e terra, e selvaggina.

Forse era la vita migliore, dopotutto. Grant ricordava di averci pensato a lungo, e spesso, nei lunghi mesi che aveva trascorso vagabondando tra quelle colline. Ci aveva pensato in momenti simili a quello, avvolto nel gradevole calore della coperta fatta a mano, appoggiato sulla rozza utilità del materasso di foglie di granoturco, con il mormorio del vento che si udiva attraverso l’abbaino rotto, nel tetto di legno di una casa nascosta dagli alberi. Ci aveva pensato in momenti simili a quello che aveva vissuto nel pomeriggio, accovacciato in cima a una staccionata, mentre lo sguardo spaziava su un campo colmo di gruppi dorati di zucche che maturavano pigramente al sole dell’autunno.

Nel buio udì un fruscio, il fruscio del materasso di foglie di granoturco sul quale dormivano i due bambini. Poi udì lo scalpiccio di piedi scalzi che camminavano quietamente sulle assi del pavimento.