«Dormi, signore?» mormorò una voce.
«No. Vuoi venire qui al caldo, con me?»
Il bambino si infilò sotto la coperta, e Grant sentì sullo stomaco il contatto dei piedi freddi del piccolo, freddi come la pietra.
«Il nonno ti ha detto di Joe?»
Grant annuì, nel buio.
«Ha detto che non lo si vedeva da un po’ di tempo.»
«Ti ha detto delle formiche?»
«Certo che l’ha detto. Che ne sai, tu, delle formiche?»
«Io e Bill le abbiamo scoperte da poco, e abbiamo tenuto la bocca chiusa. È un segreto. Lo diciamo a te per la prima volta. Non l’abbiamo detto a nessuno, ma a te dobbiamo dirlo, penso. Tu sei stato mandato dal governo.»
«C’era davvero una serra sul formicaio?»
«Sì, e… e…» il bambino rimase muto per un istante, tanto eccitato da non riuscire più a trovare le parole. «E questo non è tutto. Quelle formiche avevano dei carrettini e dal formicaio sporgevano dei comignoli e dai comignoli veniva fuori del fumo. E… e…»
«Sì, che altro c’era?»
«Non ci siamo fermati. Non abbiamo aspettato di vedere altro. Bill e io ci siamo spaventati. Siamo scappati via, di corsa.»
Il bambino si rannicchiò più comodamente sotto la coperta.
«Accidenti, hai mai sentito cose simili? Delle formiche che tirano dei carretti!»
Le formiche tiravano davvero dei carrettini. E c’erano realmente dei comignoli che sporgevano dal formicaio, comignoli dai quali uscivano sbuffi acri e sottili di un fumo che sapeva di metallo in fusione.
Con la testa che gli pulsava per l’emozione, Grant s’inginocchiò accanto al formicaio, fissando i carri in miniatura che avanzavano tra i sentieri tracciati tra i fili d’erba. Carretti vuoti che uscivano, carretti pieni che ritornavano… carichi di semi e, con una certa frequenza, anche di corpi smembrati d’insetti. Carrettini minuscoli, ma non patetici, che si muovevano veloci, sobbalzando e traballando dietro le formiche che li tiravano, aggiogate come buoi nel tempo in cui i buoi avevano camminato sui campi.
La copertura di sostanza plastica che aveva protetto un tempo il formicaio dai rigori dell’inverno, l’assurda serra costruita dall’uomo chiamato Joe, c’era ancora; ma era rotta in più parti, abbandonata da tempo, dimenticata, quasi che ormai essa fosse stata inutile, avesse già servito a uno scopo che non esisteva più.
Quella piccola valle era una plaga inospitale e selvaggia, che scendeva ripida verso la scoscesa banchina del fiume, ricoperta di vegetazione e di spine, disseminata di pietre e macigni, intervallata qua e là da esigue chiazze di prati erbosi, ricca di querce secolari che si levavano a gruppi, alte e solenni. Un luogo fatto di silenzio nel quale non si poteva credere che avesse mai echeggiato una voce, al di fuori della voce sommessa del vento tra le cime degli alberi e delle voci sottili delle creature silvestri che seguivano sentieri segreti.
Un luogo silenzioso e solenne, dove le formiche potevano vivere indisturbate, senza che la loro pace venisse violata dall’aratro o dal piede di un viaggiatore, continuando i milioni di anni di un destino insensato che risaliva a giorni lontani, ai giorni nei quali l’uomo non era esistito, nei quali anche i più remoti progenitori della razza umana dovevano ancora nascere… ai giorni nei quali il primo pensiero astratto ancora non era nato sulla Terra. Un destino chiuso e ristagnante che non aveva avuto alcuno scopo, a eccezione di quello più elementare… la sopravvivenza delle formiche.
E adesso qualcuno aveva gettato un sasso nello stagno di quel destino antico, adesso qualcuno aveva cambiato la strada polverosa e vuota, l’aveva avviata in un’altra direzione, aveva rivelato alle formiche il segreto della ruota, e il segreto della lavorazione dei metalli… quanti altri vincoli culturali erano stati sciolti, in quel formicaio, quante altre barriere antiche erano state rimosse, in modo che le formiche potessero uscire, libere, sulla strada del progresso?
La pressione della fame, forse, l’assillo quotidiano del cibo, sarebbero state le barriere più cospicue da rimuovere, sulla strada di una nuova civiltà. Senza queste barriere, le formiche avrebbero potuto trovare la strada in discesa. Fornendole di cibo abbondante, esse si sarebbero liberate dalla necessità di dedicarsi soltanto a una continua ricerca di mezzi di sussistenza, e avrebbero avuto tempo, tempo per pensare e per progredire. Era stato così, in questo caso?
Un’altra razza sulla strada della grandezza, che si sviluppava entro la struttura sociale costruita in quei giorni ormai dimenticati da sempre, quando la creatura chiamata Uomo ancora non aveva sentito l’alito della grandezza.
Dove sarebbe arrivata questa razza, percorrendo questa strada? Come sarebbero state le formiche, tra un milione di anni? Le formiche e l’Uomo avrebbero saputo… avrebbero potuto trovare un denominatore comune, uno solo, per camminare insieme verso un destino di collaborazione e di comune lavoro? Gli uomini e le formiche avrebbero saputo incontrarsi, così come si stavano incontrando gli uomini e i cani?
Grant scosse il capo. Questa era solo una speranza, e una speranza che si scontrava con le leggi della probabilità e del senso comune. Perché nelle vene dei cani e degli uomini scorreva lo stesso sangue, ed erano tanti i legami antichii che univano le due razze; mentre l’Uomo e le formiche erano cose distinte, nettamente separate, forme di vita che non erano nate per comprendersi, all’inizio del tempo, e che non avrebbero saputo, forse, mai comprendersi. Non c’era alcuna base comune tra l’uomo e la formica, come invece c’era stata tra l’uomo e il cane quando, nei giorni del paleolitico, uniti, cane e uomo si erano riscaldati davanti al fuoco, e avevano vegliato insieme per proteggersi dagli occhi ostili che avevano vagato fuori, nel buio della notte.
Grant intuì, più che sentire, il fruscio dei passi sull’erba alta e soffice del prato che si stendeva alle sue spalle. Si alzò in piedi, bruscamente, e si girò, e allora vide l’uomo che gli stava davanti. Un uomo dinoccolato, con le spalle spioventi e le mani enormi, mani che terminavano, con uno strano contrasto, in dita sensibili, lunghe e bianche e affusolate e sottili.
«Tu sei Joe?» domandò Grant.
L’uomo annuì.
«E tu sei un uomo che mi ha dato la caccia.»
Grant spalancò la bocca, sorpreso.
«Be’, forse hai ragione. Non ho dato la caccia a te, personalmente, ma a uno come te.»
«Uno diverso,» disse Joe.
«Perché non sei rimasto, l’altra notte?» chiese Grant. «Perché te ne sei andato così in fretta? Volevo ringraziarti, per avermi riparato la pistola.»
Joe si limitò a fissarlo senza parlare, ma dietro le labbra mute dell’uomo Grant intuì la presenza di un divertimento grande e nascosto, un divertimento beffardo del quale non riusciva ad afferrare il motivo, e che pure esisteva, palpabile e reale come l’aria della valle sperduta.
«Come hai fatto a sapere che la pistola era rotta?» domandò Grant. «Mi avevi sorvegliato?»
«Ti ho sentito pensare.»
«Mi hai sentito pensare?»
«Sì,» disse Joe. «Anche adesso ti sento pensare.»
Grant rise, ma la risata uscì rauca, incrinata da un brivido di disagio. Era sconcertante, ma era anche logico. Era quello che avrebbe dovuto attendersi… quello, e molto di più.
Indicò il formicaio.
«Sono tue queste formiche?»
Joe annuì, e il divertimento parve riaffiorare come una silenziosa cascata di bollicine, una cascata che giungeva fino alle labbra e le faceva lievemente tremare, e che si fermava là.
«Che cos’hai da ridere?» esclamò seccamente Grant.
«Io non sto ridendo,» gli disse Joe, e per qualche oscuro motivo Grant si sentì ferito, ferito e piccolo, come un bambino che ha ricevuto uno schiaffo per una mancanza che non avrebbe dovuto commettere, e che invece aveva commesso.