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«A te non importa niente di niente, ecco cos’è,» disse Grant.

«È quello che ti stavo dicendo,» dichiarò Joe. «È quello che ti ho detto dall’inizio.»

Diede un’occhiata di sbieco allo zaino, che Grant aveva posato al suolo, e gli angoli delle labbra gli s’incurvarono nell’ombra di un sorriso.

«Forse,» suggerì, «Se la cosa mi interessasse…»

Grant si affrettò ad aprire lo zaino, con l’ansia del naufrago che si vede offrire un’ancora di salvezza, ed estrasse il suo voluminoso incartamento. Ma a questo punto i suoi movimenti si fecero più lenti. Sentì qualcosa, dentro di sé, che gli diceva di fermarsi, di non farlo, perché era tutto inutile, non era così che si era aspettato di vivere quel momento… Pervaso da quella strana, inesplicabile riluttanza, estrasse il sottile fascicolo, diede un rapido sguardo al titolo:

«Definizione Incompiuta della Nuova Filosofia…»

Tese il fascicolo all’uomo allampanato, rimase immobile, seduto sull’erba, a fissare Joe, mentre questi leggeva velocemente, e in quel momento, mentre il tempo pareva essersi cristallizzato intorno a lui, nel silenzio di quella valle racchiusa tra le colline, il suo cuore fu stretto dalla gelida morsa dell’insuccesso, la sua mente parve affondare nel vuoto senza fine, nella consapevolezza del fallimento completo, totale, terribile.

Nella casa dei Webster lui aveva pensato a una mente che non fosse stata vincolata da alcun canale di logica, a una mente che non fosse stata condizionata da quattromila anni di pensiero umano, a una mente che non fosse stata impantanata nella palude delle convenzioni, delle abitudini, delle nozioni troppo conosciute e ritenute assolute e valide, delle consuetudini e delle artificiosità che l’Uomo aveva creato intorno a sé per ritrovarle poi ineluttabilmente dentro di sé. Una mente così, si era detto, avrebbe potuto riuscire nell’intento.

E aveva trovato quella mente. Eppure non era abbastanza. Qualcosa mancava… qualcosa mancava, e si trattava di una cosa alla quale non avevano pensato né lui, né gli uomini che a Ginevra reggevano le sorti del mondo. E quella cosa era una parte della condizione umana che tutti, fino a quel momento, avevano accettato senza riflettere, avevano dato per scontata.

La pressione sociale era l’elemento che aveva tenuto unita la razza umana nel corso dei millenni… l’aveva tenuta unita e compatta come razza, proprio come la pressione della fame aveva reso le formiche schiave di un sistema sociale immutabile e incrollabile.

La necessità che ogni uomo aveva di essere approvato dagli altri esseri umani, il bisogno di seguire il culto della solidarietà, sotto un certo aspetto… un bisogno psicologico, e quasi fisico, di ottenere l’approvazione per i propri pensieri e per le proprie azioni. Una forza che aveva impedito agli uomini di sfuggire per la tangente di mille comportamenti diversi e asociali, una forza che aveva impedito la disgregazione dell’unità della specie umana in tutti i suoi miliardi di componenti singoli, una forza che aveva spinto gli uomini a cercare la sicurezza sociale e la solidarietà umana, e a lavorare insieme nella grande famiglia umana.

Molti uomini erano morti per ottenere l’approvazione dei loro simili, altri uomini si erano sacrificati per lo stesso motivo, altri ancora avevano vissuto una vita che odiavano e detestavano, sempre in nome di quella necessità che nessuno, mai, aveva messo in dubbio. Perché senza l’approvazione dei suoi simili un uomo era solo, un reietto, una paria, un animale che era stato scacciato dal gregge.

Questa realtà umana aveva condotto a cose terribili, naturalmente… alla psicologia della massa, agli isterismi collettivi, alla persecuzione razziale, al genocidio e allo sterminio di massa nel nome del patriottismo o della religione. Ma, d’altro canto, essa era stata l’elemento di coesione che aveva tenuto unita la razza, era stata la cosa, l’unica cosa che aveva reso possibile la società umana fin dall’inizio della sua lunga storia.

E Joe non l’aveva, questa necessità, questa componente fondamentale della razza. A Joe non importava un accidente dell’approvazione degli alttri. Se ne infischiava di quello che gli altri pensavano di lui. Che lo approvassero oppure no, per lui era lo stesso.

Grant sentì sulla schiena la calda carezza del sole, udì il sospiro del vento che camminava tra gli alberi, sopra di lui, con i suoi lunghi passi fatti d’improvvisi silenzi e di improvvisi sospiri, di ululati lontani e di dolci mormoni vicini che parlavano di cose lontane, di colline e di boschi e di pianure e di mondi di là dal mare, di là dal fiume. E nel folto di una macchia d’alberi, o tra le foglie di un cespuglio, o nell’erba, un uccello cominciò a cantare la sua lenta canzone.

Era questa la caratteristica della mutazione? Era questa la strada che divergeva dalla grande strada della razza? Il rifiuto dell’istinto primario che rendeva l’uomo un membro della propria razza?

Quell’uomo che stava acquattato sull’erba, davanti a lui, e leggeva in silenzio il testamento spirituale di Juwain, l’eredità perduta che il grande filosofo di Marte aveva lasciato alle razze che popolavano il sistema solare, quell’uomo strano che vagava nei boschi e riparava gli oggetti e riscaldava i formicai, era riuscito a trovare dentro di sé, e non altrove, grazie alla mutazione, una vita così piena da rendere inutile e trascurabile l’approvazione dei propri simili? Quell’uomo dinoccolato, quell’incredibile adolescente di cento e più anni, era arrivato, infine, dopo tanti anni di storia, a raggiungere quello stadio della civiltà nel quale un uomo era solo e indipendente, capace di rinunciare sdegnosamente a tutti gli artifici della società?

Joe alzò il capo.

«Molto interessante,» disse. «Perché non ha continuato il lavoro fino alla fine?»

«È morto,» disse Grant.

Joe fece schioccare la lingua.

«Si è sbagliato in un punto.» Girò le pagine, tornò indietro e indicò un punto con il suo lungo indice affusolato. «Ecco, proprio qui. È a questo punto che è apparso l’errore. Ed è stato questo che l’ha fatto impantanare.»

Grant balbettò, per la sorpresa e l’incredulità.

«Ma… ma non dovrebbe esserci nessun errore. Juwain è morto, ecco tutto. È morto prima di finirlo.»

Joe piegò accuratamente il manoscritto, e se lo infilò in tasca.

«Poco male,» disse. «Tanto avrebbe mantenuto l’errore fino in fondo.»

«Ma allora tu puoi finire il lavoro? Puoi…»

Era inutile, inutile continuare, e Grant se ne rese conto d’un tratto. Inutile. Lo aveva letto negli occhi di Joe. La risposta era dipinta, inconfondibile, sul suo volto.

«Ma tu credi davvero,» disse Joe, e le sue parole furono misurate e scandite, limpide e cristalline come il ghiaccio di un torrente, negli ultimi giorni d’inverno. «Che io voglia regalare questo a voi rompiscatole umani?»

Grant si strinse nelle spalle, e la sconfitta era un peso insopportabile per lui.

«Immagino di no. Immagino che avrei dovuto saperlo. Un uomo come te…»

«Io,» disse Joe, «Posso usare da solo questa cosa.»

Si alzò lentamente, e mosse pigramente il piede, scavando un solco che attraversava il formicaio, rovesciando i comignoli fumanti, seppellendo i carretti vuoti e pieni e le formiche che li trainavano.

Con un’esclamazione improvvisa, Grant balzò in piedi, con la gola stretta da un nodo di collera cieca, una collera cieca che guidò la sua mano e le fece estrarre la pistola che gli pendeva al fianco.

«Fermati!» disse Joe.

Il braccio di Grant si fermò, mentre la pistola era ancora puntata verso il suolo.

«Prendila calma, piccoletto,» disse Joe. «Lo so che ti piacerebbe molto uccidermi, ma non te lo posso permettere. Perché ho dei piani, capisci? E, dopotutto, tu non mi uccideresti per il motivo che credi avere.»