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Harold Allen, notò Fowler con un’improvvisa fitta di dolore al cuore, era giovane… troppo giovane. Aveva la fiducia scontata dei giovani, e il viso di uno che non conosce la paura. E questo era strano. Perché gli uomini che vivevano nelle cupole di Giove conoscevano la paura… la paura e l’umiltà. Era difficile per l’Uomo conciliare il suo spirito fiero e presuntuoso con le immense forze del mostruoso, gigantesco pianeta.

«Lei si renderà conto,» disse Fowler, «Di non essere costretto a fare questo. Lei si renderà conto di non essere costretto ad andare.»

Era una formula protocollare, naturalmente. Le stesse parole erano state dette agli altri quattro, e loro erano andati. E questo quinto uomo, Fowler lo sapeva bene, sarebbe andato a sua volta. Ma d’un tratto sentì nascere dentro di lui una lenta, irragionevole speranza, la speranza che Allen non avesse accettato, la speranza che Allen non fosse andato fuori.

«Quando devo cominciare?» domandò Allen.

C’era stato un tempo in cui Fowler avrebbe ascoltato quella risposta con silenzioso orgoglio, ma quel tempo era passato. Per un istante il suo viso si oscurò, una ruga di ansietà apparve sulla sua fronte.

«Entro un’ora,» rispose.

Allen rimase in piedi, in silenzio, rigido sull’attenti.

«Altri quattro uomini sono usciti e non sono più tornati,» disse Fowler. «Naturalmente lei è al corrente. Noi vogliamo che lei torni. Non desideriamo che lei si impegni in qualche eroica missione di soccorso. La cosa più importante, l’unica cosa importante, è che lei torni indietro, che lei dimostri al di là di ogni dubbio che l’uomo può vivere in una forma gioviana. Si spinga fino alla prima postazione di osservazione, non oltre, e torni subito indietro. Non corra rischi. Non cerchi di compiere delle ricerche personali. Ricordi che lei deve soltanto tornare indietro.»

Allen annuì.

«Me ne rendo perfettamente conto.»

«La signorina Stanley sarà ai comandi del convertitore,» continuò Fowler. «Su questo punto lei non deve avere la minima preoccupazione. La conversione, anche negli altri quattro casi, è stata operata senza alcun inconveniente. I suoi quattro predecessori hanno lasciato il convertitore in condizioni apparentemente perfette. Lei sarà affidato a mani la cui competenza è al di là di ogni dubbio. La signorina Stanley è l’operatrice di conversione più capace e specializzata che esista in tutto il Sistema Solare. Le sue esperienze comprendono lunghi periodi di lavoro su quasi tutti gli altri pianeti. È per questa sua grande esperienza e abilità che si trova qui con noi.»

Allen sorrise alla donna, e Fowler vide uno strano guizzo di espressione balenare sul viso della signorina Stanley… qualcosa che avrebbe potuto essere pietà, oppure collera… o soltanto paura, paura nuda ed elementare. Ma fu soltanto un guizzo, che scomparve in un istante, e subito la donna ricambiò il sorriso al giovane che stava in piedi, sull’attenti, davanti alla scrivania. Ricambiò il sorriso con quel suo modo di sorridere formale, da maestra di scuola, come se si odiasse per dovere sorridere così.

«Sono impaziente,» disse Allen, «Di sottopormi alla conversione.»

E dal modo in cui pronunciò queste parole la cosa parve uno scherzo, un grande scherzo buffo.

Ma non era uno scherzo.

Era una questione seria, mortalmente seria. Da queste prove, Fowler lo sapeva bene, dipendeva il destino degli uomini su Giove. Se le prove avevano successo, le infinite risorse del gigantesco pianeta sarebbero state aperte, per le mani degli uomini, le porte di quel mondo dalle infinite ricchezze si sarebbero spalancate davanti a loro. L’Uomo sarebbe diventato padrone di Giove, come già era diventato padrone degli altri pianeti minori. Ma se le prove non avevano successo…

Se le prove non avevano successo, l’Uomo avrebbe continuato a essere incatenato e schiacciato dalla tremenda pressione, dalla forza di gravità inimmaginabile, dall’allucinante composizione dell’atmosfera gioviana, dalla strana e ostile struttura biochimica dell’intero pianeta. L’uomo avrebbe continuato a essere prigioniero delle cupole, incapace di porre piede tisicamente sulla superficie del pianeta, incapace di vederlo con i propri occhi, senza l’ausilio di macchine e strumenti imperfetti, costretto a riporre la propria fiducia nei goffi trattori di superficie e nei fallaci schermi televisivi, costretto a lavorare con strumenti ingombranti e meccanismi goffi o per mezzo di automi ancora più goffi e ingombranti e lenti degli strumenti.

Perché l’Uomo, senza protezione, e nella sua forma naturale, sarebbe stato schiacciato come un insetto dalla spaventosa pressione di quattro tonnellate per centimetro quadrato, una pressione al cui confronto quella esistente sul fondo degli abissi oceanici, sulla Terra, pareva il vuoto assoluto degli spazi siderali.

Neppure i metalli più forti che i terrestri erano riusciti a fabbricare potevano continuare a esistere nella loro forma originale in una simile pressione, in una simile pressione e sotto le piogge alcaline che spazzavano eternamente la superficie del pianeta, portate dai ciclopici venti di tempesta. Anche il metallo più forte, in quelle condizioni, si sbriciolava e si spezzava, come argilla, o si scioglieva in rivoletti e pozze ribollenti di sali d’ammoniaca. Solo aumentando artificialmente la durezza e la forza del metallo, aumentandone la tensione elettronica, era possibile renderlo adatto a sopportare il peso di migliaia e migliaia di chilometri di vortici gassosi soffocanti che componevano la selvaggia, ostile atmosfera del grande pianeta. E dopo avere fatto tutto questo, dopo avere sfruttato tutte le risorse della scienza, era necessario rivestire ogni cosa di uno strato spesso di quarzo, per proteggere gli oggetti dalla pioggia… l’ammoniaca allo stato liquido che cadeva amara e feroce, la pioggia più ostile che l’Uomo avesse mai conosciuto.

Fowler, seduto dietro la scrivania, ascoltava il pulsare dei motori che si trovavano nel compartimento più basso della cupola… i motori che funzionavano incessantemente, facendo vibrare e ronzare e pulsare la cupola in una musica che non conosceva silenzio. I motori dovevano funzionare, dovevano funzionare senza fermarsi neppure per un istante, perché se avessero cessato di ronzare anche solo per un momento la tensione elettronica sarebbe diminuita, e quella sarebbe stata la fine, la fine totale e senza speranza.

Towser si mosse, sotto la scrivania di Fowler, e schiacciò un’altra pulce, e la sua zampa batté rumorosamente sul pavimento.

«C’è altro?» domandò Allen.

Fowler scosse il capo.

«Forse lei desidera fare qualcosa,» disse. «Forse lei…»

Stava per dire, «Forse lei desidera scrivere una lettera,» e fu felice di essersi fermato in tempo, prima di pronunciare quelle parole.

Allen diede un’occhiata all’orologio.

«Arriverò in tempo,» disse. Si voltò e camminò verso la porta.

Fowler sapeva che la signorina Stanley lo stava guardando e non voleva voltarsi, non voleva affrontare il suo sguardo. Sfogliò distrattamente un fascicolo che si trovava sulla scrivania, davanti a lui.

«Per quanto tempo ha intenzione di continuare questa faccenda?» domandò la signorina Stanley, pronunciando ogni parola lentamente, con forza, e ogni parola fu come un colpo di frusta, scagliato per ferire, destinato a ferire.

Allora Fowler si voltò a guardare la donna. Le sue labbra erano strette in una linea diritta e sottile, i capelli ancora più tirati e lisci sulla fronte, e il suo viso aveva più che mai quella strana e angosciosa somiglianza con una maschera di morte.

Fowler cercò allora di parlare con voce fredda e sicura.

«Finché ci sarà almeno un motivo ragionevole per farlo,» disse. «Finché ci sarà anche una sola ragione di speranza.»

«Lei è deciso a continuare a condannarli a morte,» disse lei. «Lei è deciso a farli marciare fino a incontrare Giove nel suo vero aspetto. Lei continuerà a stare seduto qui, al sicuro, comodamente, e a mandarli fuori a morire.»