Profumi dolci e piacevoli arrivavano fino al suo corpo, s’insinuavano morbidi nel suo corpo. E non erano profumi, non erano odori, perché la sensazione era completamente dissimile dal senso dell’olfatto, come l’aveva conosciuto un tempo, quando era stato un uomo. Non erano profumi eppure lo erano. Pareva che il suo corpo assorbisse, si impregnasse dell’essenza della lavanda… l’essenza, la sensazione, che era molto di più di un profumo; e che pure non era lavanda, ma qualcosa di diverso. Si trattava di qualcosa che non aveva una definizione, per lo meno una definizione umana; e senza dubbio si trattava del primo anello di un’interminabile catena di enigmi di terminologia che lui avrebbe dovuto affrontare. Perché le parole che conosceva, i simboli di pensiero dei quali si era servito quando era stato un terrestre, non gli sarebbero più serviti, ora ch’era diventato un gioviano.
Lo sportello si aprì sul fianco della cupola, e Towser ne uscì pesantemente, rotolando e rimbalzando… almeno, lui pensò che dovesse trattarsi di Towser.
Fecee per chiamare il cane, e la sua mente cominciò a formare le parole che lui intendeva pronunciare. Ma non riuscì a pronunciarle. Non c’era alcun modo di pronunciarle. Non aveva alcun mezzo per pronunciarle. Niente, nel suo fisico, poteva servire a esprimere delle parole, o soltanto dei suoni.
Per un istante la sua mente ondeggiò in un vortice di viscido terrore, una paura cieca che si agitò in rivoletti di panico nel buio che era calato nella sua mente.
Come facevano a parlare, i gioviani? Come…
Improvvisamente sentì Towser, sentì acutamente, distintamente l’amicizia ansiosa e completa dell’animale stanco e magro e ossuto che l’aveva seguito dalla Terra su molti pianeti. Come se la creatura che era Towser si fosse protesa e per un attimo si fosse seduta all’interno della sua mente.
E insieme al confuso sentimento d’affetto, alla calda sensazione di benvenuto che sentì giungere da Towser, vennero le parole.
«Ciao, amico.»
Non erano in realtà delle parole, erano meglio delle parole. Simboli di pensiero che si formavano nella sua mente, e venivano comunicati direttamente, in simboli che possedevano delle sfumature di significato e di sentimenti che le parole non avrebbero mai potuto esprimere.
«Ciao, Towser,» rispose.
«Mi sento bene,» disse Towser. «Come quando ero un cucciolo. In questi ultimi tempi mi sentivo molto stanco e molto pesante. Le zampe erano sempre più deboli e i denti si consumavano e non servivano più a molto. Difficile masticare un osso, con denti così ridotti! E poi, le pulci non mi davano requie. Una volta non prestavo loro molta attenzione. Qualche pulce in più o in meno non significava poi tanto, quando ero più giovane.»
«Ma… ma…» I pensieri di Fowler parvero tremare per la sorpresa, parvero esitare a esprimere dei concetti definitivi. «Tu mi stai parlando!»
«Questo è sicuro,» disse Towser. «Io ti ho sempre parlato, ma tu non riuscivi a sentirmi. Io cercavo di dirti delle cose, ma non riuscivo a farmi capire.»
«A volte riuscivo a capirti,» disse Fowler.
«Non molto bene,» spiegò Towser. «Sapevi quando volevo da mangiare e quando volevo bere e quando volevo uscire, ma sei riuscito a capire soltanto quello, e niente di più.»
«Mi dispiace,» disse Fowler.
«Dimenticatene,» lo rassicurò Towser. «Vediamo chi arriva primo a quella roccia.»
Per la prima volta, Fowler vide la roccia, che distava apparentemente diversi chilometri; era una roccia che possedeva una strana bellezza cristallina, uno splendore che scintillava nell’ombra delle nuvole dai molti colori cangianti.
Fowler esitò.
«È lontana, molto lontana…»
«Ah, andiamo, muoviti,» disse Towser e, nello stesso tempo, si mise a balzare verso la rooccia.
Fowler lo seguì, mettendo alla prova le sue gambe, saggiando la forza di quel suo nuovo corpo, dapprima un po’ dubbioso, sorpreso un attimo dopo, e poi felice, felice di una gioia pura e completa che confondeva e univa in una sola cosa la forza del suo corpo che correva e la prateria rossa e purpurea e cangiante, i vapori e il fumo umido e danzante della pioggia sopra la landa senza limiti.
E, mentre correva, gli giunse il sentore della musica, una musica che pulsava nel suo corpo, che sgorgava da tutto il suo essere, che lo portava leggero su ali veloci d’argento. Una musica che ricordava quella di una campana, una campana di una chiesa sulla cima di una collina, bagnata dai raggi caldi e gentili di un sole di primavera.
E mano a mano che la roccia si avvicinava, la musica si faceva più profonda e melodiosa, e riempiva l’universo intero con le sue bianche ondate di magica armonia. E allora si accorse che la musica veniva dalla cascata altissima che si tuffava lungo il fianco alto della roccia splendente.
C’era un particolare, però, e lui se ne accorse con un brivido di eccitazione; non si trattava d’una cascata d’acqua, ma di una cascata d’ammoniaca, e la roccia era bianca e splendente perché si trattava di ossigeno solidificato.
Si fermò scivolando sulla prateria lucida e cangiante, accanto a Towser, là dove la cascata si frangeva in uno scintillante arcobaleno di cento e cento colori. Cento e cento colori, e mai espressione era stata usata più alla lettera, perché là, sul grande pianeta, non esistevano le sfumature da un colore primario all’altro, come potevano vedere sulla Terra gli occhi degli uomini, ma c’era una selezione nettissima, che scindeva il prisma in tutti i suoi componenti, fino alla sua estrema classificazione.
«La musica,» disse Towser.
«Sì, che cos’è?»
«La musica,» disse Towser, «È fatta di vibrazioni. Vibrazioni dell’acqua che cade.»
«Ma, Towser, tu non sai niente delle vibrazioni.»
«Sì, invece,» ribatté il cane. «Mi è venuto in mente proprio adesso.»
Fowler fu pervaso da un brivido di stupore.
«Ti è venuto in mente, così, semplicemente?»
E d’un tratto, all’interno della sua mente, apparve una formula… la formula di un processo chimico che avrebbe trasformato i metalli in modo da far loro sopportare la tremenda pressione di Giove.
Attonito, incredulo, fissò la cascata meravigliosa e subitaneamente il suo cervello prese i diversi colori e li allineò nell’esatta sequenza dello spettro. Così, semplicemente. Così, come per magia, traendo gli accordi di colori dal cielo, come gli accordi di musica della cascata erano sembrati scaturire dall’aria. E quello che era apparso nella sua mente doveva essere davvero apparso dal nulla, perché lui non sapeva niente né di metalli, né di colori.
«Towser,» esclamò, «Towser, ci sta accadendo qualcosa!»
«Sì, lo so,» disse Towser.
«Sono i nostri cervelli,» disse Fowler. «Li stiamo usando per intero, fino all’angolo più riposto e dimenticato. Li stiamo usando per scoprire cose che avremmo dovuto sempre sapere. Forse i cervelli delle creature della Terra sono per natura lenti e nebulosi. Forse noi siamo gli idioti dell’universo, siamo i più stupidi, i più tardivi. Forse siamo fatti in modo da usare sempre la maniera più difficile per ottenere qualcosa, per costruire qualcosa, per capire qualcosa.»
E, nella nuova limpida chiarezza mentale che pareva essersi impadronita di lui, capì che i suoi pensieri non si sarebbero limitati a classificare i colori dello spettro in una cascata, o a inventare dei metalli capaci di resistere alla pressione di Giove. Avvertiva confusamente la presenza di altre cose, di cose ancora non troppo chiare. Un vago mormorio insinuante, che pareva alludere a cose più grandi, a misteri posti molto al di là della portata del pensiero umano, perfino al di là della portata dell’immaginazione umana. Misteri, fatti, una logica nuova, tutto costruito con il ragionamento. Cose che qualsiasi cervello avrebbe dovuto conoscere, solo che avesse usato completamente tutte le sue capacità di ragionamento.