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«Siamo ancora in gran parte terrestri,» disse. «Stiamo appena cominciando ad apprendere i primi barlumi delle cose che dovremmo conoscere… i primi barlumi delle cose che ci erano nascoste, quando eravamo semplici esseri umani, forse proprio perché eravamo dei semplici esseri umani. Perché i nostri corpi umani erano dei corpi ben miseri. Attrezzati poco e male per pensare, attrezzati poco e male in certi sensi che bisogna possedere per sapere e capire davvero. Forse certi sensi necessari per raggiungere una vera conoscenza ci mancavano del tutto, e noi non lo sapevamo, non potevamo sospettarlo.»

Si voltò a guardare la cupola, una piccola cosa nera che la distanza rimpiccioliva e rendeva misera e patetica.

Laggiù c’erano degli uomini incapaci di vedere quel mondo di pura bellezza che era Giove. Uomini che credevano il pianeta oscurato da nubi grevi di tempesta e flagellato da un diluvio di pioggia battente e mortale. Laggiù c’erano degli occhi umani, occhi ciechi, perché non potevano vedere. Poveri occhi di poveri uomini. Occhi che non potevano vedere la bellezza nelle nuvole, che non potevano squarciare il velo delle tempeste e riconoscerne il vero e splendido volto. Corpi che non potevano sentire il brivido e il piacere della musica sublime che sgorgava come acqua di fonte dalla cascata bianca sulla roccia di cristallo nella pianura cangiante d’oro e di porpora.

Uomini che marciavano soli, terribilmente soli, spaventosamente soli, e parlavano con la lingua e con le labbra, come giovani esploratori che si scambiano messaggi agitando delle bandierine colorate, incapaci di protendersi a toccare un’altra mente, come lui, invece, poteva protendersi a toccare la mente di Towser. Uomini che erano esclusi per sempre da quel contatto intimo e personale con le altre cose viventi. Uomini che erano prigionieri, che erano rinchiusi entro mura costruite dalla Natura per loro, e che non lo sapevano, e che non capivano, e non potevano capire.

Lui, Fowler, si era aspettato d’incontrare il terrore, il terrore ispirato da cose mostruose e aliene in agguato là, sulla nuda superficie di Giove; si era aspettato di soccombere di fronte alla minaccia di cose e creature sconosciute, si era aspettato di essere costretto a fuggire, e aveva dovuto compiere un grande sforzo di volontà per affrontare e vincere l’orrore e il disgusto di una situazione che si discostava infinitamente da quelle della Terra.

Ma invece di tutto ciò, invece del terrore e dell’orrore e del disgusto e delle cose aliene, lui aveva trovato la cosa più grande tra tutte le grandi cose che l’Uomo aveva incontrato dall’inizio della sua storia. Aveva trovato un corpo più veloce e più sicuro. Aveva conosciuto un’inattesa sensazione di esultanza, una gioia di vivere più profonda e più vera. Aveva ottenuto una mente più limpida e più acuta. Aveva conosciuto un mondo fatto di bellezza, un mondo che neppure i più audaci sognatori della Terra avevano saputo immaginare.

«Andiamo,» lo incalzò Towser, ansioso.

«Dove vuoi andare?»

«Dovunque,» disse Towser. «Cominciamo ad andare, e poi vedremo dove finiremo. Ho una sensazione… ebbene, una sensazione…»

«Sì, lo so,» fece Fowler.

Perché anche lui aveva quella sensazione. La sensazione di un alto destino, di uno splendido destino. Un certo senso di grandezza. Il presentimento, e anche la certezza, che in qualche luogo, oltre gli orizzonti del grande pianeta, avrebbero trovato l’avventura e cose più grandi ancora dell’avventura.

Anche gli altri cinque avevano provato quelle sensazioni, avevano conosciuto gli stessi presentimenti. Anche gli altri cinque avevano sentito il desiderio di andare a vedere, avevano saputo, con la forza di un richiamo al quale non si poteva resistere, che là, oltre l’orizzonte, oltre la pianura, tra le nubi scintillanti, là dove spirava il vento, li attendeva una vita colma di appagamento e di saggezza.

Era questo il motivo per cui non erano più ritornati. E ora anche lui lo sapeva.

«Io non voglio tornare indietro,» disse Towser.

«Ma non possiamo tradirli così,» disse Fowler. «Non possiamo abbandonarli.»

Fowler fece un passo, e il suo nuovo corpo avanzò guizzando agile e veloce, e poi un altro passo, in direzione della cupola lontana e minuscola come una bollicina estranea al paesaggio stupendo del pianeta; ma poi si fermò.

Tornare in quella cupola. Tornare in quel corpo sofferente, appesantito dalla fatica e da cento veleni, che aveva lasciato da poco. Prima gli era sembrato un buon corpo, un corpo sano, e non gli era parso né sofferente né pieno di veleni né stanco, ma adesso sapeva, adesso ricordava la sofferenza e la stanchezza e il dolore.

Tornare in quel cervello nebuloso, pigro, lento. Ritornare a quei pensieri faticosi e lenti, appesantiti dal fango della sua mente limitata. Ritornare a quei messaggi sventolati da bocche che formavano segnali comprensibili agli altri. Ritornare a quegli occhi che ora gli sembravano peggiori della cecità completa. Ritornare allo squallore, allo strisciare da vermi, all’ignoranza.

«Forse, un giorno…» disse tra sé, mormorando parole alle quali non credeva.

«Abbiamo molte cose da fare e molte cose da vedere,» gli disse Towser. «E abbiamo moltissime cose da imparare. Scopriremo e troveremo…»

Sì, avrebbero scoperto e avrebbero trovato. E cosa avrebbero scoperto, e cosa avrebbero trovato? Delle civiltà nuove, forse. Delle civiltà che avrebbero fatto apparire risibile e patetica e miserabile quella degli uomini, in confronto.

La bellezza, certo. Avrebbero trovato la bellezza. E una cosa ancora più importante, la comprensione di quella bellezza, la capacità di vederla e di riconoscerla per quello che era.

E il senso del cameratismo. Avrebbero conosciuto il vero cameratismo, la vera fratellanza, la vera amicizia. Sarebbero stati compagni come nessuno lo era mai stato prima… sarebbero stati veri compagni, come nessun uomo e nessun cane lo erano mai stati prima d’allora.

E poi, la vita. Avrebbero ritrovato la vita. Avrebbero scoperto la gioia di vivere, il brivido veloce e l’eccitazione scintillante della vita, dopo un’esistenza che ora pareva spenta, trascorsa nella prigionia soporifera di una droga.

«Io non posso tornare,» disse Towser.

«Nemmeno io,» disse Fowler.

«Mi farebbero tornare a essere un cane,» disse Towser.

«E a me,» disse Fowler, «A essere un uomo.»

ANNOTAZIONI SUL QUINTO RACCONTO

Mano a mano che la leggenda si sviluppa, il lettore ricava un quadro sempre più accurato della razza umana. Gradualmente si acquista la convinzione che la razza non possa essere molto più di una semplice fantasia. Infatti non si tratta del tipo di razza che può progredire, da umilissime origini, fino a raggiungere l’altissimo livello di civiltà che le è attribuito in questi racconti. Come il lettore avrà notato, alla razza umana così come viene descritta nella leggenda difettano grandemente i requisiti fondamentali per raggiungere certi livelli.

A questo punto la sua mancanza di stabilità è già emersa con estrema chiarezza. Il fatto che essa si preoccupi più di una civiltà meccanica che di una civiltà basata su concezioni di vita più solide e più valide indica una mancanza fondamentale di carattere.

E ora, in questo racconto, noi scopriamo quanto fossero limitati i mezzi di comunicazione posseduti dal genere umano, situazione questa che certamente non favorisce il progresso. L’incapacità che l’Uomo rivela di comprendere e apprezzare il pensiero e il punto di vista di un suo simile sarebbe, nella realtà, un blocco assoluto che nessun sussidio meccanico e artificiale potrebbe contribuire a superare.

Che l’Uomo stesso si fosse reso conto dell’esistenza di questo blocco è dimostrato, nel racconto, dalla sua ansia di ottenere la filosofia juwainiana, ma bisogna osservare come egli non cercasse di acquisire questo prezioso strumento per ottenere la possibilità di comprendere i suoi simili, ma per ottenere il potere e la gloria e la conoscenza che quella filosofia avrebbe reso possibile ottenere. La filosofia viene considerata dall’Uomo come ’qualcosa che avrebbe permesso alla razza di progredire di centomila anni nello spazio di due brevi generazioni’.