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In tutta la leggenda appare evidente che l’Uomo stava conducendo una corsa, se non contro se stesso, per lo meno contro qualche immaginario inseguitore che gli era vicinissimo, alle spalle, e gli faceva sentire il suo respiro sul dorso. L’uomo era impegnato in una corsa pazza verso il potere e la conoscenza, ma è inutile cercare anche un solo accenno a quanto intendesse fare di quel potere e di quella conoscenza, una volta che li avesse raggiunti; in tutta la leggenda non sarà possibile trovare neppure un indizio, in questo senso.

L’Uomo, secondo la leggenda, era uscito dalle caverne un milione di anni prima dell’epoca nella quale si svolge questo racconto. Eppure era riuscito a eliminare l’uccisione dei propri simili dal suo sistema di vita, dopo che questa ne era stata una componente fondamentale, solo cento anni prima dell’epoca della storia. E questa è la vera, incontestabile misura della sua barbarie: dopo un milione di anni è riuscito a liberarsi del vizio di uccidere, e considera questo risultato un grande trionfo!

Moltissimi lettori, dopo la lettura di questo racconto, troveranno facile accettare la teoria di Vagabondo, secondo cui l’Uomo è stato costruito deliberatamente per rappresentare l’antitesi di tutto ciò che il Cane è e rappresenta, una specie di mitico fantoccio ammonitore, protagonista di una parabola sociologica.

Questa teoria sembra suffragata dai continui riferimenti all’impotenza umana, al modo che l’Uomo ha di correre senza riposo e senza méta, ai suoi perpetui tentativi di afferrare un sistema di vita che continuamente gli sfugge; e tutto questo è dovuto, probabilmente, al fatto che l’Uomo non sa mai esattamente quello che vuole.

V

PARADISO

La cupola era una forma tozza e aliena che non aveva posto là, sotto il cielo baluginante di nebbia purpurea di Giove, era una costruzione rannicchiata e spaventata che pareva farsi piccola e confondersi di fronte all’immensità del pianeta.

La creatura che era stata Kent Fowler stava diritta sulle sue zampe enormi e massicce.

Una cosa aliena, pensò. La considero una cosa aliena. Ecco fino a qual punto mi sono allontanato dalla razza umana. Perché non è aliena, non è per niente aliena. No, non è aliena, per me. È il luogo dove ho fatto i miei piani e ho pensato al futuro e ho cercato risposte e ho formulato domande. È il luogo che io ho lasciato… con paura. Ed è il luogo al quale io torno… come un animale braccato, e pieno di paura.

Come un animale braccato, braccato dal ricordo della gente che era con me prima che io diventassi la ’cosa’ che sono ora, prima che io conoscessi ciò che è possibile raggiungere quando non si è un essere umano… prima che io scoprissi la pienezza di vita e di sensazioni e di piacere che non sono e non saranno mai per gli uomini, se gli uomini non rinunceranno a essere uomini.

Towser si agitò, inquieto, accanto a lui, e Fowler avvertì l’amicizia calda e piena della creatura che un tempo era stata un cane, l’amicizia e il cameratismo e l’amore che forse erano esistiti sempre, ma che non erano mai stati espressi, non erano mai stati conosciuti appieno fino a quando loro erano stati un uomo e un cane.

I pensieri del cane entrarono nella mente di Fowler, si insinuarono gentilmente nel corso dei suoi pensieri.

«Non puoi fare questo, amico,» disse Towser.

La risposta di Fowler fu quasi un lamento.

«Ma devo farlo, Towser. È per questo che sono uscito dalla cupola. Per scoprire qual è il vero aspetto di Giove, per apprendere la sua vera natura. E adesso posso ritornare a dirlo, adesso posso ritornare con quello che ho scoperto.»

Avresti dovuto farlo già da molto tempo, disse una voce profondamente nascosta dentro di lui, una voce umana debole e lontana che lottava per giungere fino a lui, attraverso il suo essere che ormai apparteneva a Giove. Ma sei stato un vile e hai rimandato… e hai continuato a rimandare. Sei fuggito perché avevi paura di tornare indietro. Avevi paura che ti facessero tornare a essere uomo.

«Mi sentirò solo,» disse Towser, ma non furono parole e non furono suoni. Non parole… invece, un senso di solitudine, un pianto disperato per la separazione vicina. Come se, per un momento, Fowler si fosse proteso e avesse condiviso la mente di Towser.

Fowler rimase in silenzio, immobile, mentre la ripugnanza cresceva dentro di lui. Ripugnanza, al pensiero di tornare a essere un uomo… di tornare a vivere in quel misero involucro che era il corpo umano, di tornare a pensare in quello strumento inadeguato che era la mente umana.

«Verrei con te,» gli disse Towser, «Ma so che non riuscirei a sopportarlo. Potrei morire prima di tornare qui, prima di tornare a essere come sono ora. Ero alla fine dei miei giorni, e alla fine delle mie forze, ricordi? Ero vecchio e pieno di pulci. Avevo i denti logori che stavano per cadere, e la digestione era sempre una sofferenza infinita. E facevo dei sogni terribili. Quando ero cucciolo mi divertivo a dare la caccia ai conigli, ma verso la fine erano i conigli a dare la caccia a me.»

«Tu rimani qui,» disse Fowler. «Io tornerò indietro…»

Se riuscirò a convincerli, pensò. Se riuscirò a farli comprendere. Se riuscirò a spiegare quello che ho visto e quello che ho sentito e l’esperienza che ho vissuto.

Sollevò la testa massiccia e guardò la distesa ondulata delle colline che facevano corona agli alti picchi montani avvolti dal manto di nebbia rosa e purpurea. Un lampo veloce tracciò la sua linea serpentina, attraverso il cielo, e le nubi e la nebbia furono rischiarate da un palpito di fuoco sublime, un palpito d’estasi che sbocciò tutt’intorno e cambiò i colori sempre mutevoli di Giove, scemando poi in un fuoco d’artificio di indescrivibili meraviglie.

Spinse avanti il suo corpo pesante, lentamente, con riluttanza infinita. Un fiore di profumo sbocciò nel prato fertile del vento, scese fino a lui portato dalle ali della brezza, e il suo corpo sembrò suggere l’aroma dolcissimo… parve diventare per un istante il profumo, e sbocciare anch’esso nel vento, tra le colline di porpora e d’oro, sul grande prato dai colori mutevoli. Eppure quello che sentiva non era un profumo… anche se quella parola era la definizione più vicina al vero che lui possedesse, anche se quella parola bastava a esprimere, sia pure confusamente, quello che lui sentiva e quello che gli era sbocciato nel corpo, nel suo corpo che lo aveva colto dal prato fertile del vento. Negli anni futuri il genere umano avrebbe dovuto scoprire un nuovo vocabolario, avrebbe dovuto inventare nuovi termini per esprimere ciò che Giove offriva.

Com’era possibile, si chiese, spiegare la nebbia che avvolgeva la landa nei suoi vapori umidi e mutevoli, e com’era possibile spiegare il profumo ch’era pura delizia? Gli uomini avrebbero capito più facilmente delle altre cose, ne era sicuro. Il fatto che nessuno dovesse mangiare, che nessuno dovesse dormire, che nessuno dovesse più angustiarsi per l’infinita gamma di nevrosi depressive delle quali l’uomo era sempre vittima. Avrebbero compreso queste cose, perché erano cose spiegabili in termini semplici e chiari, cose che potevano essere spiegate nel linguaggio che già esisteva.

Ma le altre cose… gli elementi per spiegare i quali sarebbe stato necessario l’uso di un nuovo vocabolario… come avrebbe potuto spiegarle? Le emozioni che l’Uomo non aveva mai conosciuto. Le capacità fisiche e morali che l’Uomo non aveva mai sognato. La chiarezza cristallina della mente, e la comprensione piena… la capacità di sfruttare il proprio cervello fino all’ultima cellula. Le cose che si sapevano e che si potevano fare, mentre l’Uomo non avrebbe mai potuto farle perché il suo corpo era privo dei sensi che le rendevano possibili e comprensibili.