«Mi dispiace, signori,» disse Webster.
Andrews si alzò pesantemente dal suo posto.
«Grazie, signor presidente,» disse.
Webster sedette sulla sua poltrona e li seguì con lo sguardo, mentre abbandonavano la stanza, e percepì il gelo e il vuoto di quella stanza, dopo la loro uscita.
Mi metteranno in croce, pensò. Mi inchioderanno alla porta del fienile e io non ho nulla con cui rispondere, con cui reagire. Non ho un solo argomento con cui ribattere.
Si alzò dalla poltrona e camminò lentamente attraverso la stanza, si fermò davanti alla finestra, guardò fuori, guardò il giardino che dormiva pigramente sotto il sole del pomeriggio.
Eppure, semplicemente, lui non poteva dire la verità.
Il paradiso! Bastava chiedere e si otteneva il regno dei cieli! E la fine dell’umanità con esso. La fine di tutti gli ideali e di tutti i sogni del genere umano, la fine della stessa razza.
La luce verde si accese sulla sua scrivania e si udì un sommesso ronzio, e Webster si voltò e ritornò al suo posto.
«Cosa succede?» domandò.
Il piccolo schermo si accese e apparve un viso.
«I cani hanno comunicato in questo momento, signore, che Joe, il mutante, si è recato nella sua residenza, e Jenkins l’ha fatto entrare.»
«Joe! Ne è sicuro?»
«È quello che dicono i cani. E i cani non sbagliano mai.»
«No,» disse Webster, lentamente, «No, i cani non sbagliano mai.»
Il viso svanì dallo schermo, e Webster sedette stancamente, pesantemente.
Con dita intorpidite raggiunse il piccolo quadro di comando che si trovava sul piano della scrivania, e formò la combinazione, senza neppure guardare.
La casa apparve, enorme e massiccia, sullo schermo, la casa che si trovava nell’America del Nord e stava appollaiata sulla cima della collina battuta dal vento. Una costruzione che sorgeva lassù da quasi mille anni. Un luogo nel quale una lunga teoria di Webster aveva vissuto e sognato ed era morta.
In alto, nell’azzurro sopra la casa, un corvo stava volando e Webster udì, o gli parve di udire, il richiamo portato dal vento dell’uccello nero che tracciava ampie spirali nel cielo.
Tutto era normale… apparentemente. La casa sonnecchiava sotto il sole del mattino, e la statua sorgeva ancora sul prato… la statua di un antenato morto da tanto tempo, che era scomparso sulla strada scintillante delle stelle. Allen Webster, che era stato il primo a lasciare il Sistema Solare, diretto ad Alfa del Centauro… la stessa destinazione della spedizione che tra un giorno o due sarebbe partita da Marte.
La casa era immota, l’aria era immota intorno alla casa, non c’era alcun segno di vita intorno; l’erba era come raggelata nell’aria senza vento, e la scena pareva fissata per sempre, eterna e immutabile.
Webster mosse la mano e cancellò la combinazione. Lo schermo si spense.
Jenkins può affrontare la situazione, pensò. Probabilmente meglio di quanto possa farlo un uomo. Dopotutto, in quel suo corpo di metallo è racchiusa la saggezza di quasi mille anni, è racchiusa l’esperienza di dieci lunghi secoli. Jenkins mi chiamerà tra poco, per farmi sapere quel che sta succedendo.
La sua mano si mosse di nuovo, e formò una nuova combinazione.
Aspettò per diversi secondi, lunghissimi secondi, prima che il volto apparisse sullo schermo.
«Che c’è, Tyler?» domandò il volto.
«Ho appena ricevuto la notizia che Joe…»
Jon Culver annuì.
«Anch’io l’ho ricevuta adesso. Sto controllando.»
«Che cosa ne deduci?»
Il viso del capo della Sicurezza Mondiale si raggrinzì in un’espressione perplessa.
«Forse comincia a cedere, ad addolcirsi. Abbiamo dato ben poca tregua a Joe e agli altri mutanti. I cani hanno svolto un lavoro davvero di prim’ordine.»
«Ma non ci sono stati segni di cedimento,» protestò Webster. «Da tutti i dati in nostro possesso non emerge un solo elemento che possa far pensare a una svolta della situazione.»
«Ascolta,» disse Culver. «Non hanno potuto tirare il fiato una sola volta, in più di cento anni, senza che noi lo sapessimo. Abbiamo trascritto, nero su bianco, tutto quello che loro hanno fatto. Abbiamo bloccato sul nascere tutte le loro mosse. All’inizio avranno dato la colpa alla sfortuna, ma adesso sanno che non si tratta soltanto di sfortuna. Forse hanno deciso che è inutile continuare, che sono stati sconfitti.»
«Non credo,» disse Webster, in tono solenne. «Appena quei bambini troppo cresciuti decidono di essere sconfitti, tu farai sempre bene a guardare dove metti i piedi.»
«Cercherò di saperne di più,» gli disse Culver. «Ti terrò sempre informato.»
Lo schermo impallidì e ritornò a essere soltanto un quadrato di vetro. Webster lo fissò, scuro in viso.
I mutanti non si dichiaravano battuti… ne era sicuro. Lo sapeva anche Culver, questo. Eppure…
Perché Joe era andato da Jenkins? Perché non si era messo in contatto con il governo, laggiù a Ginevra? Per salvare la faccia, forse. Trattare per mezzo di un robot. Dopotutto, Joe conosceva Jenkins da tanto, tanto tempo.
Webster, irrazionalmente, non riuscì a reprimere un sentimento di orgoglio. Orgoglio perché, se le cose stavano così, Joe era andato da Jenkins. Perché Jenkins, malgrado la sua pelle di metallo, era anche lui un Webster.
Orgoglio, pensò Webster. Trionfi ed errori. Ma che avevano sempre contato, avevano sempre inciso sulla razza. Ciascuno di loro, nel corso degli anni, dei lunghi anni senza fine, aveva provato orgoglio, era salito in alto ed era caduto, aveva raggiunto i suoi trionfi e aveva commesso i suoi errori. Jerome, che aveva fatto perdere al mondo la filosofia di Juwain. E Thomas, che aveva dato al mondo il principio del volo interstellare, che adesso era stato perfezionato e messo a disposizione della razza. E il figlio di Thomas, Allen, che aveva tentato di percorrere la via delle stelle e aveva fallito. E Bruce, che per primo aveva concepito le civiltà gemelle dell’uomo e del cane. E sempre gli errori si erano mescolati ai trionfi, sempre l’orgoglio aveva conosciuto le sue vittorie. E adesso, finalmente toccava a lui… a Tyler Webster, Presidente della Commissione Mondiale.
Seduto dietro la sua scrivania, intrecciò le mani sul piano levigato, le strinse con forza, guardò la luce più fievole della sera versarsi come acqua cristallina dalla finestra.
Stava aspettando, e non aveva difficoltà a confessarlo davanti a se stesso. Aspettava il ronzio e la luce verde del segnale, il segnale che gli avrebbe annunciato che Jenkins lo stava chiamando per informarlo di quanto aveva detto Joe. Se soltanto…
Se soltanto fosse stato possibile raggiungere un punto d’intesa. Se soltanto i mutanti e gli uomini avessero potuto trovare un accordo, per vivere e lavorare insieme. Se avessero potuto dimenticare quella guerra mai dichiarata e nascosta fatta di mosse subitanee che nascondevano la posizione di stallo, se soltanto avessero potuto dimenticare gli errori e le incomprensioni e l’impotenza ad agire, avrebbero potuto andare lontano, tutti e tre insieme… l’uomo e il cane e il mutante.
Webster scosse il capo. Era troppo, non poteva attendersi tanto. La differenza era troppo grande, l’abisso che li divideva era troppo profondo, il solco scavato tra loro era troppo ampio. Il sospetto da parte degli uomini e l’ironia tollerante da parte dei mutanti avrebbero tenuto divise le due specie. Perché i mutanti erano una razza diversa, un germoglio che si era diviso dal tronco, che era andato lontano, troppo lontano. Degli uomini che erano diventati dei veri individui singoli senza alcun bisogno di una società, senza alcun bisogno dell’approvazione umana, completamente privi dell’istinto gregario che teneva unita la razza, degli uomini che erano immuni dalle pressioni sociali.