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Joe aveva fatto bene i suoi piani. Aveva aspettato quel momento. Aveva usato la filosofia di Juwain come un’arma, la più terribile, contro la razza umana.

Perché con la filosofia di Juwain l’Uomo sarebbe andato su Giove. Pure di fronte a tutta la logica del mondo, l’Uomo sarebbe andato su Giove. Malgrado gli argomenti contrari, malgrado il senso comune, l’Uomo sarebbe andato su Giove.

Per il bene o per il male, l’Uomo sarebbe andato su Giove.

L’unica possibilità che era esistita per sconfiggere Fowler era stata l’incapacità che Fowler avrebbe avuto di descrivere ciò che aveva visto, di narrare ciò che aveva sentito, di raggiungere la gente con un’esposizione chiara del messaggio che lui portava. Servendosi soltanto delle parole umane, quel messaggio sarebbe stato vago e nebuloso e, benché all’inizio la gente avrebbe potuto credere, sarebbe sempre stata una fede vacillante, una fede suscettibile di essere controbattuta da altri argomenti. La gente avrebbe avuto fede, ma avrebbe ascoltato gli oppositori, e forse si sarebbe lasciata convincere a restare.

Ma adesso quest’unica possibilità non esisteva più, perché le parole di Fowler non sarebbero più state vaghe e nebulose. La gente avrebbe saputo, con la stessa chiarezza e lo stesso nostalgico desiderio di tornare che Fowler possedeva, com’era Giove, e quali meraviglie esso conteneva.

La gente sarebbe andata su Giove, avrebbe deciso di iniziare una vita diversa dalla vita umana.

E il Sistema Solare, l’intero Sistema Solare, a eccezione di Giove, sarebbe stato vuoto, aperto alla nuova razza dei mutanti, che avrebbe potuto occuparlo senza incontrare ostacoli, per sviluppare la propria civiltà… la civiltà dei mutanti, qualunque essa potesse essere, la civiltà che ben difficilmente avrebbe potuto seguire le tracce lasciate dalla razza che aveva dato vita ai mutanti.

Webster voltò le spalle alla finestra, ritornò lentamente alla sua scrivania. Si chinò e aprì un cassetto, e frugò dentro di esso. La sua mano ne uscì stringendo qualcosa che fino a poco prima lui non avrebbe mai neppure lontanamente sognato di usare… un relitto di un tempo passato, un pezzo da museo, un fossile che aveva riposto là dentro molti anni prima.

Con un fazzoletto pulì il metallo della pistola, controllò l’efficienza del meccanismo con dita tremanti.

Fower era la chiave di tutto. Se Fowler moriva…

Se Fowler moriva e le basi gioviane venivano smantellate e abbandonate, i mutanti sarebbero stati sconfitti. L’Uomo avrebbe avuto la filosofia di Juwain e avrebbe conservato il proprio destino. La spedizione per Alfa del Centauro sarebbe partita verso le stelle. Gli esperimenti biologici sarebbero proseguiti su Plutone. l’Uomo avrebbe marciato lungo la strada tracciata dalla sua civiltà.

Più veloce che mai. Più veloce di quanto si potesse sognare. L’Uomo avrebbe bruciato le tappe, avrebbe raggiunto vertici sublimi, superiori ai sogni più ambiziosi e sfrenati.

Due enormi balzi in avanti. La rinuncia alla violenza come sistema di vita… e la comprensione infinita che derivava dalla filosofia di Juwain. Le due grandi cose che avrebbero lanciato il genere umano, fino a raggiungere una velocità inconcepibile, lungo la strada che portava a una méta sconosciuta.

La rinuncia alla violenza e la…

Webster guardò, con occhi sbarrati, la pistola che stringeva in pugno, e gli parve che un vento d’uragano si fosse scatenato nella sua mente.

Due grandi passi… e lui stava per rinnegare il primo, per svuotarlo di ogni significato, per cancellarlo forse per sempre.

Per centoventicinque anni nessun uomo aveva ucciso il suo simile… per più di mille anni uccidere era stato un elemento antiquato, sorpassato, per la definizione delle cose umane. Per più di mille anni si era perduta l’abitudine di uccidere, e nessuno aveva più ucciso negli ultimi centoventicinque anni.

Mille anni di pace, e una morte avrebbe potuto distruggere tutto il lavoro. Uno sparo nella notte avrebbe fatto crollare l’intero edificio, avrebbe potuto scagliare l’Uomo indietro nel tempo, farlo ritornare all’antico, bestiale modo di pensare.

Webster ha ucciso… perché non posso farlo anch’io? Dopotutto, ci sono certi uomini che dovrebbero essere uccisi. Webster ha fatto bene, ma non avrebbe dovuto limitarsi a uno solo. Non capisco proprio perché adesso lo vogliano impiccare; dovrebbe ricevere una medaglia, invece. Prima di tutto, dovremmo cominciare dai mutanti. Se non fosse stato per loro…

Ecco come avrebbero parlato.

Ecco, pensò Webster, di quali voci è fatto il vento che sta ruggendo nella mia mente.

Il lampeggiare della pazza insegna colorata gettava strani riverberi cangianti sulle pareti e sul soffitte, dava alla stanza un aspetto d’incubo, strano e alieno.

Fowler la sta vedendo, pensò Webster. La sta guardando e, anche se non la stesse guardando, c’è sempre il caleidoscopio.

Gettò la pistola in fondo al cassetto, e camminò lentamente verso la porta.

ANNOTAZIONI SUL SESTO RACCONTO

Se possono essere sorti dei dubbi sull’origine degli altri racconti della leggenda, nel caso del sesto racconto non può sussistere dubbio alcuno. Qui, in questa storia, ritroviamo il marchio inconfondibile della narrativa canina. La storia possiede il profondo valore morale, l’attenzione vivissima per le questioni etiche, la sfumatura delle emozioni e dei sentimenti che vengono rivelati in tutti gli altri miti di origine canina.

Eppure, per quanto strano possa sembrare alla luce di quanto abbiamo esposto, è proprio in questa storia che Stecco ravvisa la prova più valida dell’esistenza reale della razza Umana. Qui, dice Stecco, abbiamo la prova che i Cani narravano queste leggende davanti ai fuochi ardenti, sedendo al caldo e parlando dell’Uomo sepolto a Ginevra o scomparso su Giove. Qui, continua Stecco, ci viene presentato il resoconto dei primi passi compiuti dal Cane per sondare i mondi delle ombre, e dei primi passi compiuti verso la creazione di una vera fratellanza animale.

Qui, inoltre, sempre secondo Stecco, abbiamo la prova che l’uomo fu un’altra razza contemporanea al Cane, con il quale percorse un tratto comune della lunga strada della civiltà. Decidere se il disastro che viene descritto in questo racconto sia stato o no il colpo fatale per l’uomo, afferma Stecco, oggi è praticamente impossibile, e ben difficilmente riusciremo mai a saperlo. Stecco giunge ad ammettere che, attraverso i secoli, il racconto — come lo conosciamo oggi — sia stato abbellito e ornato e ampliato. Ma esso fornisce comunque, è la ferma convinzione dello studioso, la prova indiscutibile e pienamente soddisfacente secondo la quale una grande catastrofe colpì la razza umana, e ne causò la fine.

Vagabondo, che non vede assolutamente la prova indiscutibile ravvisata da Stecco in questo racconto, crede che il narratore di questa storia porti alla logica conclusione una civiltà del tipo di quella creata dall’Uomo. Senza almeno un alto fine morale, senza una forma di stabilità connaturata con la razza, nessuna civiltà può sopravvivere, ed è questa la lezione, secondo Vagabondo, che il racconto vuole insegnare.

L’Uomo, in questo racconto, è trattato con una certa dolcezza che non gli viene riserbata in nessuno degli altri racconti. Improvvisamente egli diventa una creatura sola e pietosa, eppure in lui c’è una certa aureola di gloria e grandezza. È tipico dell’Uomo compiere alla fine un gesto grandioso, per acquistare la divinità al prezzo dell’immolazione.

Eppure l’adorazione che Ebenezer tributa all’Uomo possiede certe sfumature inquietanti, che sono diventate oggetto di dispute particolarmente accanite tra gli studiosi della leggenda.

Salta, nel suo volume «Il Mito dell’Uomo», pone questa domanda: Se l’Uomo avesse preso una strada diversa, non avrebbe potuto, col tempo, diventare grande come il Cane?