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Probabilmente si tratta di una domanda che già molti lettori della leggenda si sono posti.

VI

PASSATEMPI

Il coniglio scomparve dietro un cespuglio e il cagnolino nero corse come un fulmine al suo inseguimento, poi si fermò di colpo, puntando le zampe in avanti, scivolando per qualche passo sul terreno. Sul sentiero era fermo un lupo, che stringeva tra le fauci il corpo insanguinato e sussultante del coniglio.

Ebenezer rimase immobile, ansando, con la lunga lingua rossa che gli pendeva dalla bocca, quasi si sentì mancare, e avvertì un senso di nausea e di disgusto, alla vista di quello spettacolo.

Era stato un coniglio così grazioso!

Si udì uno scalpiccio sul sentiero, dietro di lui, e Ombra sbucò come una freccia dal cespuglio, e si fermò accanto a Ebenezer, di colpo.

Il lupo spostò il suo sguardo infuocato dal cane al piccolissimo robot, e poi di nuovo al cane. La gialla luce della ferocia lentamente si spense negli occhi della belva.

«Non avresti dovuto fare questo, Lupo,» disse Ebenezer, con dolcezza. «Il coniglio sapeva che io non gli avrei fatto del male e che era tutto un gioco. Ma ti è corso incontro e tu lo hai azzannato.»

«È inutile parlargli,» sibilò Ombra, dall’angolo della bocca. «Non capisce una parola di quello che dici. Tu continua a parlare, e ti ritroverai inghiottito dal lupo.»

«No, con te vicino non lo farà,» disse Ebenezer. «E poi mi conosce. Ricorda l’inverno passato. Faceva parte del branco che abbiamo sfamato.»

Il lupo fece un passo avanti, lentamente, e poi un altro, con infinita prudenza, finché non più di mezzo metro lo separò dal cagnolino. E poi, molto lentamente, molto cautamente, posò il coniglio al suolo spingendolo col muso verso Ebenezer.

Ombra produsse un suono sottile che era quasi un ansito di meraviglia.

«Lo sta dando a te!»

«Lo sapevo,» disse Ebenezer, con calma. «Te l’ho detto che doveva ricordarsi di me. È quello che aveva l’orecchio congelato, e che Jenkins ha curato.»

Il cane avanzò di un passo, muovendo la coda, col naso all’insù. Il lupo si irrigidì, per un istante, poi chinò il suo testone pauroso e fiutò. Per un istante i due nasi, quello del cane e quello del lupo, quasi si toccarono, e poi il lupo indietreggiò.

«Andiamocene da qui,» lo pregò Ombra. «Fatti precedere da lui lungo il sentiero, e io chiuderò la marcia. Se cerca di fare qualcosa…»

«Non cercherà di fare niente,» disse Ebenezer, seccamente. «È un amico nostro. Non è colpa sua, se ha preso il coniglio. Lui non capisce. Lui vive così. Per lui il coniglio è solo un pezzo di carne da mangiare.»

Proprio come un giorno lo era per noi, pensò. Com’era per noi ancor prima che il primo cane sedesse insieme a un uomo davanti al fuoco scoppiettante all’imboccatura di una buia caverna… e per molto tempo, dopo di allora. Perfino adesso un coniglio, qualche volta…

Muovendosi lentamente, con aria quasi di scusa, il lupo avanzò, e raccolse di nuovo il coniglio tra le fauci enormi. La sua coda si mosse… non scodinzolando, non proprio, ma quasi.

«Hai visto!» esclamò Ebenezer, e il lupo fuggì. Le zampe della belva si mossero veloci, e ci fu una grigia macchia veloce che si allontanava e scompariva tra gli alberi… una ombra grigia che si confuse con le verdi ombre della foresta.

«Se l’è ripreso,» disse Ombra, furibondo. «Che razza di sporco…»

«Però me l’aveva dato,» disse Ebenezer, trionfante. «Solo che aveva fame, tanta da non resistere fino all’ultimo. Ha fatto qualcosa che nessun lupo ha mai fatto prima di lui. Per un momento è diventato qualcosa di più di un animale.»

«Che modo di fare un dono,» sbuffò Ombra, disgustato.

Ebenezer scosse il capo.

«Si vergognava, quando se l’è ripreso. Hai visto come scondizolava. In quel modo cercava di spiegarmi… spiegarmi che aveva fame, e che aveva bisogno del coniglio. Ne aveva molto più bisogno di me.»

Il cane si guardò intorno, guardò le cupole verdi degli alberi e i verdi sentieri del bosco, cattedrali silenziose di foglie di una foresta fatata; annusò l’odore delle foglie marcite e delle foglie gialle che tremolavano ancora sospese ai rami, respirò il profumo inebriante degli anemoni e dell’erba umida e del biancospino in fiore, fiutò l’aroma penetrante e pungente delle nuove foglie, delle gemme dischiuse, dei boschi nei primi giorni della primavera.

«Forse, un giorno…» mormorò.

«Sì, lo so,» disse Ombra. «Forse un giorno anche i lupi diventeranno civili. E con loro i conigli e gli scoiattoli e tutte le altre creature selvagge. Se voi cani continuate a gingillarvi con queste idee…»

«Non ci gingilliamo, come tu dici,» rispose Ebenezer. «Sognamo, forse. Gli uomini erano soliti sognare. Sedevano in qualche luogo e pensavano a tante cose, a quelle che c’erano e a quelle che avrebbero potuto esserci. È così che noi cani siamo venuti al mondo. Un uomo che si chiamava Webster ci ha concepiti nei suoi sogni. Poi ha lavorato su di noi, per avverare questi sogni. Ha modificato la nostra gola, in modo che noi potessimo parlare. Ci ha costruito delle speciali lenti di contatto, in modo che noi potessimo leggere. Ci ha…»

«È servito molto, agli uomini, tutto il loro sognare,» disse Ombra, stizzosamente.

E questa è la solenne verità, pensò Ebenezer. Non sono rimasti molti uomini, ormai. Ci sono soltanto i mutanti, chiusi nelle loro torri cupe, intenti alle loro occupazioni che nessuno conosce, che nessuno può immaginare… e c’è la piccola colonia di veri uomini che sopravvive ancora a Ginevra. Gli altri, tanto tempo fa, sono andati su Giove. Sono andati su Giove per trasformarsi in creature che non erano umane.

Lentamente, con la coda bassa e ciondolante, Ebenezer si girò, e cominciò a salire per il sentiero.

Che peccato per il coniglio, pensò. Era stato un coniglio così grazioso. Aveva corso così bene. E non aveva mai avuto paura, in realtà. Gli aveva dato la caccia tante e tante volte, e il coniglio sapeva che lui non l’avrebbe mai preso.

Malgrado ciò, Ebenezer non riusciva a biasimare il lupo. Per un lupo un coniglio non era soltanto un passatempo, un diversivo, una preda cui dare la caccia così, per gioco. Perché il lupo non aveva greggi che gli dessero la carne e il latte di cui aveva bisogno, non aveva campi dorati di grano da mietere per preparare biscotti.

«Sai cosa dovrei fare?» grugnì l’implacabile Ombra, che lo seguiva dappresso. «Dovrei dire a Jenkins che sei venuto qui. Lo sai che dovresti ascoltare, in questo momento.»

Ebenezer non rispose, e continuò a trotterellare per il sentiero. Perché quello che aveva detto Ombra era vero. Invece che dare la caccia ai conigli, lui avrebbe dovuto starsene accucciato nella Casa dei Webster, avrebbe dovuto starsene accucciato ad ascoltare… ad ascoltare le cose che giungevano fino a lui… ì rumori e gli odori e la consapevolezza di qualcosa che era vicino. Era come ascoltare tenendo l’orecchio appoggiato a una parete ciò che accadeva nella stanza vicina, solo che i suoni erano deboli, e i profumi e gli odori fievoli, e a volte molto lontani e difficili da afferrare. Ed era ancora più difficile comprenderli, a volte.

È l’animale che vive dentro di me, pensò Ebenezer. Il vecchio cane, pieno di pulci, quello che masticava un osso succulento e scavava tra le aiuole del giardino, il vecchio cane che non vuole andarsene, che non mi vuole lasciare… che mi spinge a fuggire nel bosco per andare a caccia di conigli, mentre invece dovrei essere in casa ad ascoltare, che mi spinge a respirare l’aria verde della foresta, a esplorare la profondità dei boschi e dei sentieri tra il verde, mentre invece dovrei essere in casa, a leggere i vecchi libri che riempiono gli scaffali della biblioteca dello studio.