Troppo in fretta, si disse. Siamo cresciuti troppo in fretta. Abbiamo dovuto crescere troppo in fretta, ed è stato superiore alle nostre forze.
L’uomo ha impiegato migliaia di anni per trasformare i suoi grugniti rauchi in parole, in un discorso intelligibile, nei primi rudimenti di una lingua, e poi ci sono volute altre migliaia di anni per scoprire il fuoco, e ancora molte altre migliaia di anni per inventare l’arco e la freccia… migliaia di anni per imparare ad arare la terra e a mietere il raccolto per avere del cibo, migliaia e migliaia d’anni ancora per abbandonare la caverna oscura e vivere in una casa costruita con le proprie mani.
E noi? Noi, dopo poco più di mille anni dal giorno in cui abbiamo imparato a parlare, ci siamo ritrovati da soli… da soli, in balia di noi stessi… non proprio, però, perché noi abbiamo avuto Jenkins.
La grande cattedrale della foresta si dissolse, intorno a lui, gli alberi e i cespugli si fecero più radi, apparve un grande prato sul quale si ergevano qua e là grandi querce nodose che si inerpicavano sul fianco della collina, simili a grandi vecchi zoppicanti che si fossero fermati ai bordi del sentiero, incapaci di riprendere l’ascesa, incapaci di ritrovare la strada, fermi là, immobili, stanchi e silenziosi.
La casa sorgeva sulla cima della collina, una forma massiccia e austera che pareva aver messo radici nella terra, che pareva acquattarsi più vicina alla terra per sentirne la calda, umida presenza vitale. Era così antica che aveva acquistato il colore delle cose che la circondavano, dell’erba e dei fiori e degli alberi, del cielo e del vento e delle stagioni. Una casa costruita da uomini che l’avevano amata, avevano amato lei e la terra che la circondava, così come i cani, ora, amavano quella casa e quella terra amica. Costruita, abitata e abbandonata morendo da una famiglia leggendaria che era passata, producendo la scia di una stella cadente, attraverso lunghi secoli della lunga strada del tempo. Da uomini che avevano donato le loro ombre alle storie che si narravano intorno al focolare ardente nelle notti di bufera, quando il vento ululava tempestoso tra le foglie delle querce lontane. Quelle storie parlavano di Bruce Webster e del suo primo cane, Nathaniel; di un uomo di nome Grant che aveva dato a Nathaniel un messaggio, una torcia che brillava nel tempo e che doveva essere passata di cane in cane, nelle generazioni future; di un altro uomo che aveva cercato di raggiungere le stelle e del vecchio che lo aveva aspettato invano, seduto sullo sdraio nel prato verde. E altre storie parlavano dei mutanti, gli orchi crudeli che i cani avevano sorvegliato per lunghi anni.
E adesso gli uomini se ne erano andati e la famiglia era solo un nome e i cani portavano avanti la torcia come Grant aveva detto a Nathaniel, in quel giorno lontano, di continuare a fare per sempre.
Come se voi foste gli uomini, come se i cani fossero gli uomini. Erano queste le parole la cui eco si era spenta da dieci lunghi secoli, erano queste le parole che i cani avevano detto ai cuccioli e i cuccioli avevano trasmesso in tono grave ai loro cuccioli… e alla fine il tempo era venuto.
I cani erano tornati a casa quando gli uomini se ne erano andati, erano venuti dai più lontani angoli della Terra, erano ritornati al luogo dove il primo cane aveva pronunciato la prima parola, dove il primo cane aveva letto la prima riga di scrittura… erano tornati alla Casa dei Webster, dove un uomo, il cui ricordo si confondeva nelle nebbie del passato e della leggenda, aveva sognato un grande sogno nel quale il cane e l’uomo percorrevano insieme il lungo sentiero dei secoli, mano nella zampa.
«Abbiamo fatto del nostro meglio.» disse Ebenezer, come se stesse parlando a qualcuno. «Abbiamo tentato con tutte le nostre forze. Anche adesso lo stiamo facendo.»
Dall’altro fianco del colle venne lo scampanio cristallino dai campanacci, insieme a un coro di guaiti allegri, insieme a un abbaiare frenetico e ansioso. I cuccioli riportavano le vacche dal pascolo, per la mungitura della sera.
La polvere dei secoli giaceva immobile sotto la volta, innumerevoli briciole di polvere, una polvere finissima che non era una cosa estranea, ma faceva parte del luogo stesso… era la parte che era morta con il passare degli anni.
Jon Webster respirò l’odore acre della polvere che dominava la stanza, insieme all’odore di muschio e di cose ingiallite e di cose andate per sempre, Jon Webster ascoltò il silenzio pulsare come una canzone muta dentro di lui. Una fioca lampada al radium ardeva sul pannello, il pannello con la sua ruota e l’interruttore e mezza dozzina di quadranti.
Timoroso di turbare il silenzio che aveva il profumo del sonno e della pace, Webster si mosse quasi in punta di piedi, rispettoso del peso del tempo che pareva scendere su di lui dalla volta. Allungò una mano e col dito toccò l’interruttore scoperto, quasi che avesse pensato di non trovarlo, in realtà, quasi che avesse dovuto sentire il suo contatto sul dito per accettarne la presenza.
E non era illusione, era là, vero e solido. L’interruttore e la ruota e i quadranti, e la luce solitaria che ardeva dolcemente sopra il pannello. E non c’era altro, solo quello. In tutta quella cripta piccola e spoglia, sotto la volta polverosa del tempo, non c’era altro.
Esattamente come l’antica mappa aveva indicato.
Jon Webster scosse il capo, pensando, Avrei dovuto saperlo che ci sarebbe stata. La mappa aveva ragione. La mappa ricordava. Siamo stati noi a dimenticare… a dimenticare, o a non avere mai saputo, o a non averci mai pensato. Forse a non averci mai dato importanza. E sapeva che quest’ultima ipotesi doveva essere quella giusta, perché loro non se ne erano mai curati. Perché loro non ci avevano mai pensato.
Anche se, probabilmente, pochissimi oltre a lui avevano mai saputo dell’esistenza di quella cripta. Non l’avevano mai saputo perché era bene che pochi, pochissimi sapessero. Il fatto che essa non fosse mai stata usata non spiegava il suo abbandono. Doveva esserci stato un giorno, un tempo…
Fissò il pannello, meditabondo. Lentamente, alzò di nuovo la mano e poi la lasciò ricadere sul fianco. Meglio di no, si disse, meglio di no. Perché la mappa non gli aveva offerto alcun indizio sulla funzione della cripta, sulla funzione dell’interruttore.
«Difesa,» aveva detto la mappa, e questo era stato tutto.
Difesa! Certo, avrebbe dovuto esserci una difesa, in quei giorni lontani di mille anni prima. Una difesa della quale mai c’era stato bisogno, ma una difesa necessaria, una difesa contro ogni eventualità che fosse scaturita dall’incertezza, perché anche allora l’amicizia, la fratellanza tra i popoli e tra i singoli uomini erano state cose precarie, costruzioni fragili e traballanti che una sola parola e una sola azione avrebbero potuto sconvolgere, compromettendone per sempre l’equilibrio. Anche dopo dieci secoli di pace, il ricordo della guerra era stato una cosa viva… una possibilità sempre presente alla mente della Commissione Mondiale, una possibilità da temere e da evitare, una possibilità alla quale bisognava essere sempre pronti.
Webster rimase ritto e immobile di fronte al pannello, ascoltando il pulsare lento del cuore della storia, che si udiva vicinissimo in quella stanza silenziosa. La storia, che aveva raggiunto la fine della strada, e aveva scoperto che si trattava di un vicolo cieco… una corrente che si era gettata impetuosa contro una diga e aveva formato uno stagno di poche centinaia di futili vite umane, e che ora era uno stagno torbido e immobile, sulla cui superficie non si agitavano le onde delle lotte e dei trionfi umani.
Allungò la mano, e l’appoggiò alla parete di pietra, e sentì il freddo viscido, lo strisciare sottile della polvere sotto la sua carne.