Il visifono era in un angolo della stanza, un mobile che faceva parte dell’arredamento e che era stato quasi dimenticato, un oggetto che non era stato quasi mai usato. Non c’era mai stato bisogno di usarlo, infatti. Tutto il mondo era là, nella città di Ginevra.
Webster si alzò, fece qualche passo in direzione del visifono, poi si fermò e cercò di ricordare. La combinazione di chiamata doveva essere sull’elenco, ma dov’era l’elenco? Probabilmente, era nascosto da qualche parte, nella scrivania.
Ritornò alla scrivania, e cominciò a frugare nei cassetti. Preso da un’ansia improvvisa, cercò in fretta, ansiosamente, come un cane che cerchi di disseppellire un osso.
Jenkins, il robot antico, si grattò il mento metallico con dita metalliche. Era una cosa che faceva quand’era profondamente immerso nei suoi pensieri, un gesto senza significato e irritante che aveva preso a fare nella sua lunghissima associazione con gli esseri umani.
I suoi occhi tornarono a posarsi sul piccolo cane nero che stava seduto sul pavimento, davanti a lui.
«Così il lupo è stato amichevole,» disse Jenkins. «Ti ha offerto il coniglio.»
Ebenezer saltellò di eccitazione, seduto com’era.
«Era uno di quelli che abbiamo sfamato durante l’inverno passato, il branco che è arrivato fino alla casa e che noi abbiamo cercato di addomesticare.»
«Riconosceresti il lupo, se lo rivedessi?»
Ebenezer annuì.
«Ho fiutato il suo odore,» disse. «Lo ricorderei sempre.»
Ombra strusciò i piedi sul pavimento, impaziente.
«Senti, Jenkins, non credi che dovresti dargli una lezioncina? Avrebbe dovuto ascoltare ed è scappato. Nessuno gli aveva permesso di andare a caccia di conigli…»
Jenkins parlò con voce ferma.
«Sei tu che dovresti avere la lezione, Ombra. Per il tuo atteggiamento. Tu sei assegnato a Ebenezer, dovresti essere parte di lui. Tu non sei un individuo singolo. Tu sei soltanto le mani di Ebenezer. Se lui avesse le mani, non avrebbe bisogno di te. Tu non sei né il suo mentore né la sua coscienza. Solo le sue mani. Ricordatelo sempre.»
Ombra strusciò i piedi più forte, recalcitrante.
«Scapperò via,» dichiarò.
«Per unirti ai robot selvaggi, suppongo,» disse Jenkins.
Ombra annuì.
«Saranno felici di avermi con loro. Stanno lavorando, stanno costruendo, e hanno bisogno di tutto l’aiuto che possono ottenere.»
«Ti farebbero a pezzi per utilizzare i rottami,» gli disse Jenkins, acidamente. «Tu non hai nessun addestramento, nessuna capacità, niente che ti possa far diventare uno di loro.»
Si rivolse a Ebenezer.
«Abbiamo degli altri robot.»
Ebenezer scosse il capo.
«Ombra va benissimo. So come trattarlo. Ci conosciamo bene, ormai. Lui mi impedisce di impigrire, mi tiene sempre attivo e dinamico.»
«Questo va bene,» approvò Jenkins. «Voi due continuerete a stare insieme, allora. E se per caso ti capita di tornare a dar la caccia ai conigli, Ebenezer, e ti imbatti di nuovo nel lupo, cerca di educarlo.»
I raggi del sole al tramonto si riversavano dalle finestre, bagnando di luce l’antica stanza, immergendola nel dolce calore di una sera di primavera inoltrata.
Jenkins restò seduto in silenzio sulla poltrona, ascoltando i suoni che giungevano da fuori… lo scampanio tintinnante delle vacche, i guaiti lieti dei cuccioli, il ritmico tonfo sonoro di un’accetta che spaccava i ceppi per il focolare.
Povero piccolo, pensò Jenkins. Scappare così di casa per dare la caccia a un coniglio, quando avrebbe dovuto ascoltare. Troppo lontano… troppo avanti… e troppo in fretta. Devo stare attento. È pericoloso. Devo impedire che il troppo lavoro li faccia crollare. Lasciamo che venga l’autunno, e poi interromperemo il lavoro per una settimana o due. Vacanza per tutti, e caccia al procione per tutto il giorno. Farà loro un mondo di bene.
Eppure verrà un giorno in cui non ci sarà più la caccia, né al procione né ai conigli… il giorno in cui i cani, finalmente, avranno addomesticato tutte le creature… il giorno in cui tutte le creature selvagge diventeranno esseri capaci di pensare, di parlare e di lavorare. Un sogno pazzo e audace e lontano… ma, pensò Jenkins, non è più pazzo e più remoto e più audace di molti sogni degli uomini.
Forse, perfino migliore dei sogni degli uomini, perché in esso non c’era traccia della brutalità spietata dei piani degli uomini, perché in esso non c’era traccia dell’aridità meccanica che costituiva il fine ultimo di certi sogni umani.
Una nuova civiltà, una nuova cultura, un nuovo modo di pensare. Forse mistico, e forse visionario, ma anche l’uomo era stato un visionario. Loro indagavano nei misteri che l’Uomo aveva scartato, sprezzante, pensando che fossero indegni della sua civiltà, superati e perduti nelle nebbie lontane della superstizione, privi di qualsiasi attendibilità scientifica.
E quei misteri che l’Uomo aveva confinato entro i limiti sfumati della leggenda e del mito, quei misteri erano le cose che ora i Cani cercavano.
Cose che si scontrano cupamente nella notte. Forme indistinte. Cose che si aggirano di notte intorno alla casa, e i cani si svegliano e ringhiano spauriti e guaiscono col pelo ritto, e fuori non ci sono orme sulla neve. Cani che ululano quando qualcuno muore.
I cani sapevano. I cani avevano saputo già molto tempo prima di ricevere una lingua per parlare, e delle lenti di contatto per leggere. Non avevano percorso la lunga strada fino al punto in cui l’uomo l’aveva percorsa… non erano cinici e scettici. Credevano nelle cose che vedevano e che udivano. Non avevano inventato la superstizione come una forma di protezione, come uno scudo per proteggersi dalle cose invisibili.
Jenkins ritornò al lavoro. Prese la penna, e si curvò sul grosso quaderno d’appunti. La penna scricchiolò, mentre lui scriveva.
Ebenezer riferisce di avere ravvisato un comportamento amichevole da parte del lupo. Raccomandare al consiglio di esonerare Ebenezer dall’ascolto e assegnarlo al compito di prendere contatto col lupo.
Sarebbe bello, pensò Jenkins, Avere i lupi come amici. Diventerebbero dei magnifici esploratori. Meglio ancora dei cani. Più forti, più veloci, più circospetti. Potrebbero sorvegliare i robot selvaggi al di là del fiume e dare il cambio ai cani. Potrebbero tenere d’occhio anche i castelli dei mutanti.
Jenkins scosse il capo. Non ci si poteva più fidare di nessuno, coi tempi che correvano. I robot parevano onesti. Erano amichevoli, passavano spesso a trovarli, davano una mano in certe occasioni, quando ce n’era bisogno. Bisognava dire che erano degli ottimi vicini, molto socievoli e spesso premurosi. Ma non si poteva mai sapere. E poi, i robot costruivano delle macchine.
I mutanti non davano mai fastidio a nessuno, e anzi era difficile vederli. Ma anche loro dovevano essere sorvegliati. Non si poteva mai sapere a quale diavoleria si stessero dedicando. Bisognava sempre ricordare quello che avevano fatto agli uomini. Quello sporco trucco del juwainismo… che avevano donato all’Uomo nel momento in cui esso avrebbe condannato la razza. Com’era puntualmente accaduto.
Gli uomini. Per noi erano degli dei, e adesso se ne sono andati. Ci hanno lasciati soli. Ce ne sono alcuni a Ginevra, certo, ma non possiamo disturbarli, non si interessano a noi.
Sedette immobile nella penombra del crepuscolo che scendeva come nebbia dalle colline, immerso nei suoi pensieri, pensando ai bicchieri di whisky che aveva portato, alle missioni che aveva eseguito, ai giorni nei quali dei Webster avevano vissuto ed erano morti tra quelle mura.