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«Non capisco.»

«È come se ci fosse una grande casa,» spiegò Ebenezer. «Una casa molto grande, piena di tante stanze. E tra le stanze ci fossero delle porte. E tu, stando in una di queste stanze, riuscissi a sentire quelli che si trovano nelle altre stanze, ma non potessi andare da loro.»

«È impossibile,» disse Webster. «Certo che potrei andare da loro. Basterebbe passare dalla porta.»

«Ma tu non puoi aprire la porta,» disse Ebenezer. «Tu non sai neppure che la porta esiste. Credi che la stanza nella quale ti trovi sia l’unica dell’intera casa. E anche se sapessi che la porta esiste, non potresti aprirla.»

«Tu parli delle dimensioni.»

Ebenezer corrugò la fronte, in uno sforzo di comprensione.

«Non conosco la parola che hai detto. Dimensioni. Io ti ho detto quello che Jenkins ci ha detto per spiegarci i mondi delle ombre. Lui ha aggiunto che non si trattava di una casa, in realtà, e che non si trattava neppure di stanze, e che le cose che ascoltavamo probabilmente erano diverse da noi.»

Webster annuì, senza parlare. Era così che ci si doveva comportare. Usare il metodo più semplice. Non avere fretta. Non confondere i cani con paroloni difficili. Lasciare che afferrassero per prima cosa il concetto, e poi, a suo tempo, usare una terminologia più esatta e scientifica. E molto probabilmente si sarebbe trattato di una terminologia nuova, fabbricata ad arte. C’era già una parola, in quel nuovo vocabolario… le ombre. Ombre, le cose che vivono dietro le pareti, le cose che si sentono e non si possono identificare… gli abitanti della stanza accanto.

Ombre.

Se non fai il bravo, le ombre verranno a prenderti per portarti via.

Questo sarebbe stato il metodo umano. Non puoi capire una cosa. Non la puoi vedere. Non la puoi esaminare. Non la puoi analizzare. Va bene, allora non c’è. Non esiste. È un fantasma, un folletto, un’ombra.

Le ombre verranno a prenderti per portarti via…

Così è più semplice, più comodo. Hai paura? Certo, ma quando spunta il giorno la dimentichi. Quando accendi la luce, la paura vola via. E non ti perseguita, non ti ossessiona. Pensaci bene, pensaci molto, fai uno sforzo di volontà, e la paura non c’è più. L’hai mandata via. Trasformala in uno spettro, in un fantasma, in un folletto, e potrai riderne… alla luce del giorno.

Una lingua calda e umida lambì il mento di Webster, ed Ebenezer fu percorso da un brivido di piacere.

«Mi piaci,» disse Ebenezer. «Jenkins non mi ha mai tenuto così. Nessuno mi ha mai tenuto così.»

«Jenkins è molto occupato,» disse Webster.

«Puoi dirlo,» ammise Ebenezer. «Scrive molte cose in un libro. Cose che noi cani sentiamo quando ascoltiamo le ombre, e cose che dovremmo fare più avanti.»

«Hai sentito parlare dei Wester?» domandò l’uomo.

«Certo. Sappiamo tutto di loro. Tu sei un Webster. Pensavamo che non ce ne fossero più.»

«Sì che ce ne sono,» disse Webster. «Qui c’è sempre stato un Webster. È rimasto con voi per tutto il tempo. Jenkins è un Webster.»

«Davvero? Lui non ce l’aveva mai detto.»

«Non ha voluto.»

Il fuoco stava morendo e le ombre si erano infittite nella stanza. Le esili fiammelle guizzanti che animavano ancora le braci rossigne traevano strane figure e strane danze di giganti confusi dalle pareti e dal soffitto.

E non solo quello. C’erano delle altre cose. Deboli fruscii, deboli mormorii, come se le stesse pareti parlassero tra loro. Una vecchia casa con lunghi ricordi e tante vite racchiuse nella sua struttura, una casa antica con troppi ricordi e una vita ancora palpitante nei ricordi, una vita che pervadeva ogni cosa. Duemila anni di vita, per l’antica casa, duemila anni di vite che erano passate tra quelle mura. Una casa costruita per durare nel tempo, ed era durata nel tempo. Una casa costruita per essere più che un semplice edificio, più che una semplice costruzione… per essere una vera casa, un nido e una patria a un tempo. Ed era ancora una casa… un luogo solido e sicuro che abbracciava coloro che vi entravano, che li teneva stretti e li riparava e dava loro calore, li cullava, quasi, li faceva diventare parte di sé.

Dei passi si udirono, nella mente di Webster… passi che venivano da tempi lontani, e ormai trascorsi per sempre, passi che erano stati attutiti dalla polvere dei secoli, e dei quali si era spenta l’ultima eco tanto, tanto tempo prima del suo. Il passo dei Webster. La marcia dei Webster, di coloro che erano venuti prima di lui, di coloro che Jenkins aveva servito dal giorno della loro nascita all’ora della loro morte.

La storia, pensò Webster. Ecco la storia. La storia è qui, che si agita tra gli arazzi e striscia silenziosa sul pavimento, siede negli angoli oscuri, mi guarda dalle pareti. Quella storia viva che un uomo può sentire nel sangue e nelle ossa e che può avvertire nella schiena… la pressione degli occhi morti da tanto tempo, degli occhi tornati silenziosamente dalla notte.

Un altro Webster, eh! Non sembra gran cosa. Insignificante. Senza alcun valore. Il buon sangue è diventato acqua, la razza si è consunta, non ha più forza né vigore. Com’è diverso da ciò che eravamo noi, ai nostri tempi. Dev’essere l’ultimo della dinastia. Dev’essere l’ultimo dei Webster.

Jon Webster si mosse, provò l’istintivo desiderio di ribellarsi.

«No, non sono l’ultimo dei Webster,» disse. «Ho un figlio.»

Be’, la differenza non è poi molta. Dice che ha un figlio. Ma non può essere gran cosa…

Webster fece per alzarsi dalla poltrona, ed Ebenezer, con un salto, lasciò il suo grembo.

«Questo non è vero,» esclamò Webster. «Mio figlio…»

E poi tornò a sedersi sulla poltrona.

Suo figlio che andava nei boschi con l’arco e la freccia, giocando un nuovo gioco, divertendosi un mondo.

Un passatempo, aveva detto Sara prima di salire la collina che conduceva a cento anni di sogni.

Un passatempo. Non un lavoro. Non un modo di vivere. Non una necessità.

Un passatempo.

Una cosa artificiale. Una cosa che non aveva principio e non aveva fine. Una cosa che un uomo poteva lasciar perdere in qualsiasi momento, senza che nessuno se ne accorgesse neppure.

Come stare tutto il giorno a preparare nuove misture alcoliche.

Come dipingere dei quadri che nessuno voleva.

Come andarsene in giro con una squadra di robot pazzi, supplicando la gente di lasciarsi rifare la casa.

Come scrivere un libro di storia, una storia che non importava a nessuno.

Come giocare agli indiani o ai cavernicoli o ai pionieri con un arco e le frecce.

Come preparare secoli di sogni per uomini e donne che erano stanchi della vita e bramavano la fantasia.

L’uomo restò seduto, immobile, sulla poltrona davanti al fuoco morente, fissando il nulla senza speranza che si stendeva davanti ai suoi occhi, ricordando il nulla senza speranza che aveva accompagnato gli stanchi giorni della sua vita, aspettando il nulla spaventoso e agghiacciante che si stendeva per tutti i giorni a venire, domani e domani e domani, negli anni senza fine.

Immerso nei suoi pensieri, intrecciò le dita, mosse nervosamente le mani, e il pollice della mano destra cominciò a fregare il dorso della mano sinistra.

Ebenezer si fece avanti, nell’oscurità cupa nella quale danzavano le ultime lingue rossigne del fuoco morente, appoggiò le zampe anteriori sul ginocchio dell’uomo e sollevò il muso per guardarlo negli occhi.

«Ti sei fatto male alla mano?» chiese.

«Come?»

«Ti sei fatto male alla mano? Te la stai fregando.»

Webster rise, una risata secca e breve.

«No, sono soltanto dei porri.» Li mostrò al cane.

«Accidenti, dei porri!» disse Ebenezer. «Tu non li vuoi, vero?»