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E c’era vita! L’odore della vita portato dal vento, debole ma inconfondibile, il sentore della vita vibrava tra le colline spoglie, tremava tra le rocce e oltre il fiume.

L’ombra si mosse, si staccò dal riparo della roccia, cominciò a strisciare e a fluire morbidamente lungo il costone.

La tana non c’era e il fiume era diverso e sul fianco delle alture rocciose si apriva l’imboccatura di una grotta.

L’ombra tremò, sbavando mentalmente.

Le Parole erano state giuste. Non avevano fallito. Questo era un mondo diverso.

Un mondo diverso… diverso sotto molti aspetti. Un mondo così pieno di vita, che il profumo della vita vibrava perfino nell’aria e nel vento. Una vita, forse, che non avrebbe saputo correre così in fretta, né nascondersi così bene.

Il lupo e l’orso s’incontrarono all’ombra della grande quercia e si fermarono insieme per ingannare le lunghe ore del giorno.

«Ho sentito,» disse Lupo, «Che ci sono state delle uccisioni.»

Orso grugnì.

«Uno strano genere di uccisioni, fratello. Morti, ma non mangiati.»

«Uccisioni simboliche,» disse il lupo.

Orso scosse il capo.

«Non puoi convincermi dell’esistenza di cose tanto assurde come un’uccisione simbolica. Questa nuova psicologia che i Cani ci stanno insegnando comincia davvero a esagerare. Quando avviene un’uccisione, avviene o per odio o per fame. Non mi sorprenderai mai a uccidere qualcosa che poi non mangi subito.»

Si affrettò a chiarire:

«Non che io uccida nessuno, fratello. Lo sai bene.»

«Certo che no,» disse il lupo.

Orso chiuse pigramente gli occhietti, li riaprì e batté le palpebre.

«Non voglio dire neanche, cerca di capirmi, che qualche volta io non rovesci un sasso e non lecchi una formica o due.»

«Non credo che i Cani possano considerare questo un delitto,» gli disse Lupo, con aria grave. «Gli insetti sono un po’ diversi dagli animali e dagli uccelli. Nessuno ci ha mai detto che non possiamo uccidere gli insetti.»

«È qui che ti sbagli,» disse Orso. «I Canoni lo dicono con estrema chiarezza. Tu non devi mai sopprimere la vita. Tu non devi mai prendere la vita d’altri.»

«Sì, penso che dicano proprio così,» ammise il lupo in tono untuoso. «Immagino che tu abbia ragione, fratello. Ma perfino i Cani lasciano un po’ correre, per quello che riguarda gli insetti. Saprai certamente che uno dei loro sforzi maggiori è quello di produrre una polvere contro le pulci che sia maggiormente efficace. E a che cosa serve la polvere contro le pulci, ti chiedo? Bene, rispondo, a uccidere le pulci. È per questo che esiste. E le pulci sono una forma di vita. Le pulci sono creature viventi.»

Orso diede una zampata rabbiosa a una piccola mosca verde che gli ronzava intorno al naso.

«Io scendo alla stazione di nutrizione,» disse il lupo. «Che ne diresti di venire con me?»

«Non ho fame,» disse l’orso. «E poi tu sei in anticipo. Non è ancora il momento di mangiare.»

Lupo si leccò il muso, con la lingua enorme.

«Certe volte mi faccio vedere laggiù, sai, come se passassi per caso, e il webster che è di servizio mi dà sempre qualche boccone extra.»

«Meglio tenerlo d’occhio,» disse Orso. «Stai tranquillo che non ti dà quei bocconcini extra per niente. Avrà qualche cosa in mente, avrà già fatto dei calcoli su di te. Non mi fido di quei webster.»

«Quello di cui parliamo è un bravo webster,» dichiarò il lupo. «Presta servizio nella stazione di nutrizione, e non ce ne sarebbe bisogno. Basterebbe un robot. Ma lui è andato a chiedere che gli dessero il lavoro. Si era stancato di oziare in quelle case che sembrano scatole, senza niente da fare all’infuori che giocare. E lui sta seduto nella stazione, e ride e parla, proprio come se fosse uno di noi. Quel Peter è un bravo webster, te lo dico io.»

L’orso brontolò, nella sua gola cavernosa.

«Uno dei Cani mi diceva che, secondo Jenkins, i webster non si chiamano affatto webster. Jenkins avrebbe affermato che il loro nome non è webster, ma uomini…»

«Che cosa vuol dire uomini?» domandò Lupo.

«Be’, te lo stavo dicendo adesso. Cioè, è quello che afferma Jenkins…»

«Jenkins,» dichiarò Lupo, «Sta diventando così vecchio che ormai è quasi un rottame, tutto ammaccato e rappezzato. Ha troppe cose da ricordare. Deve avere almeno mille anni suonati.»

«Settemila,» lo corresse l’orso. «I Cani pensano di organizzare una grande festa per il suo compleanno. Gli stanno preparando un nuovo corpo; sarà il loro regalo per il compleanno. Quello vecchio si sta logorando… deve andare nell’officina di riparazione un mese sì e l’altro no.»

L’orso dondolò il testone enorme, saggiamente.

«Diciamo la verità, Lupo, i Cani hanno fatto molto per noi. Hanno aperto dappertutto delle stazioni di nutrizione e ci mandano dei robot medici quando ne abbiamo bisogno, per non parlare di tutto il resto. Pensa, l’anno scorso mi era venuto un tremendo male ai denti, e…»

Il lupo lo interruppe.

«Ma quelle stazioni di nutrizione potrebbero essere migliori. Loro continuano a dire che il lievito è lo stesso che la carne, che ha lo stesso valore nutritivo e così via. Ma non ha il gusto della carne…»

«Come fai a saperlo?» chiese l’orso.

L’esitazione del lupo durò per una frazione di secondo.

«Be’… be’, l’ho saputo da quello che mi ha raccontato il nonno, naturalmente. Un vecchio furfante in piena regola, il nonno. Spesso si concedeva il lusso di mangiare un po’ di selvaggina, lui. Mi diceva sempre qual era il sapore della carne. Ma a quel tempo non c’erano tutti i guardiani che ci sono oggi…»

Orso chiuse gli occhi, li tenne chiusi per qualche istante, poi li riaprì.

«Mi chiedo sempre che sapore abbiano i pesci,» disse. «C’è una quantità di trote giù nel torrente della Pineta. Sto delle ore sulla riva a guardarle. Sarebbe facile allungare la zampa e pescarne una o due.»

Aggiunse, frettolosamente:

«Naturalmente, non l’ho mai fatto.»

«Naturalmente,» disse il lupo.

Un mondo e poi un altro, come una lunga catena. Un mondo dietro l’altro, una processione di mondi che camminavano tutti sulle orme del precedente, e andavano sempre avanti. ÌJn domani di un mondo era l’oggi di un altro mondo. E ieri era domani e domani era il passato.

Solo che non c’era nessun passato. Nessun passato, neppure l’ombra… a eccezione di quei frammenti di ricordi che fluttuavano come creature notturne alate nell’ombra della mente di qualcuno. Non c’era un passato che si potesse raggiungere. Non c’erano disegni dipinti sul muro del tempo. Non c’erano pellicole da proiettare a rovescio, per vedere cos’era stato un tempo, com’era stato un tempo.

Joshua si alzò e si scrollò, tornò a sedersi e schiacciò una pulce. Ichabod era seduto rigidamente dietro il tavolo, e tamburellava la superficie liscia con le sue dita metalliche.

«I calcoli sono esatti,» disse il robot. «E non possiamo farci niente. Tutto corrisponde. Non possiamo viaggiare nel passato. È un’impossibilità assoluta.»

«Non possiamo,» disse Joshua.

«Però,» disse Ichabod. «Noi sappiamo dove sono le ombre.»

«Sì,» disse Joshua. «Noi sappiamo dove sono le ombre. E forse possiamo raggiungerle. Ora conosciamo qual è la strada da prendere.»

Una strada era aperta, ma un’altra era chiusa. Ma non era chiusa, perché per chiudersi avrebbe dovuto esistere, e la strada non era mai esistita. Perché il passato non c’era, non era mai esistito, non c’era posto per lui. Dove avrebbe dovuto esserci un passato c’era un altro mondo.

Come due cani che camminavano l’uno sulle orme dell’altro. Quando la zampa di uno toccava l’orma dell’altro, l’altro aveva già tolto la sua zampa da quell’orma. Come una lunga, interminabile fila di palline rotolanti lungo una scanalatura alla stessa velocità, sempre quasi sul punto di toccarsi, ma senza mai arrivare a toccarsi davvero. Come gli anelli di un’infinita catena che scorresse su una ruota dentata, ma una ruota con un miliardo di miliardi di denti.