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«Allora farai bene a scappare,» disse Lupo. «Conosco un posticino dove potrai nasconderti. Non ti troveranno mai, neanche se cercassero per mille anni.»

«Non riuscirei a cavarmela,» disse Peter. «Ci sono molti occhi che guardano, nei boschi. Troppi occhi. Sarebbero loro a vedermi, e tutti saprebbero dove sono andato. Sono passati i giorni in cui ci si poteva nascondere.»

«Forse hai ragione,» disse il lupo, lentamente. «Sì, penso che tu abbia ragione.»

Si voltò a guardare il corpicino inanimato del pettirosso.

«Che ne diresti se ci liberassimo della prova?» chiese.

«La prova…»

«Be’, certo…» Il lupo fece due passi rapidi, abbassò il capo. Si udì il rumore di qualcosa che si spezzava. Lupo si leccò i baffi e si acquattò al suolo, avvolgendosi intorno alle zampe la lunga coda pelosa.

«Tu e io possiamo andare d’accordo,» disse. «Sissignore, ho la sensazione che tu e io possiamo andare d’accordo. Ci assomigliamo tanto, noi due!»

Una piuma rivelatrice gli ballonzolava sul naso.

Il corpo era un vero gioiello.

Un maglio non avrebbe potuto scalfirlo, e non c’era più pericolo della ruggine. E aveva tanti congegni che neppure li si poteva contare.

Era il regalo per il compleanno di Jenkins. Le parole incise sul petto lo dicevano in lettere nitide e chiare:

A JENKINS DAI CANI

Ma io non metterò mai questo corpo, si disse Jenkins. È troppo elegante e perfetto per me, è troppo elegante per un robot vecchio come me. Mi sentirei fuori posto in una cosa sgargiante come questa.

Dondolò lentamente, avanti e indietro, nella sedia a dondolo, ascoltando il miagolio del vento tra le fronde.

Le loro intenzioni erano così buone. E io non vorrei ferire i loro sentimenti per nessuna cosa al mondo. Dovrò portare questo corpo, qualche volta, solo per le apparenze. Solo per fare piacere ai Cani che me l’hanno donato. Non sarebbe giusto che non me lo mettessi, quando loro hanno faticato tanto per procurarmelo. Ma non tutti i giorni… solo per le occasioni migliori.

Forse in occasione della grande Colazione all’Aperto dei Webster. Certo, voglio avere il mio aspetto migliore quando ci sarà la Colazione all’Aperto. È una grande festa. È un grande avvenimento. Il giorno in cui tutti i Webster del mondo, tutti i Webster rimasti in vita, si riuniscono. E vogliono che io sia con loro. Ah, sì, sì, mi vogliono sempre con loro. Perché io sono un robot Webster. Sissignore, lo sono sempre stato e lo sarò sempre.

Chinò il capo e mormorò delle parole che pervasero l’aria della stanza come una canzone di sospiri. Parole che lui e la stanza ricordavano. Parole di un passato lontano, molto, molto lontano.

La poltrona cigolò e il suono fu una nota della canzone di quella stanza dalle pareti macchiate di passato. Fu una nota della canzone del vento che soffiava tra le foglie e ululava su per la cappa del caminetto.

Il fuoco acceso nel caminetto, pensò Jenkins. È passato tanto tempo dall’ultima volta in cui abbiamo acceso il fuoco nel caminetto. Agli uomini piaceva il fuoco. A loro piaceva star seduti davanti al caminetto a guardarlo ardere e a costruire immagini e figure e sogni tra le fiamme guizzanti. Immagini e figure… e sogni…

Ma i sogni degli uomini, disse Jenkins, parlando per sé solo… i sogni degli uomini non ci sono più. Sono partiti, andati. Andati su Giove e sepolti a Ginevra e germogliano di nuovo, deboli e pallidi, nei webster di oggi.

Il passato, si disse Jenkins. Il passato resta troppo con me. E il passato mi ha reso inutile. Ho troppe cose da ricordare… tante cose da ricordare, che il passato diventa più importante delle cose che si devono fare oggi. Io vivo nel passato e questo non è un modo di vivere.

Perché Joshua dice che il passato non c’è, e Joshua lo deve sapere. Tra tutti i Cani, è l’unico che lo può sapere, perché ha dedicato tutti i suoi sforzi a cercare un passato nel quale viaggiare, a cercare il modo di risalire nel tempo per vedere con i suoi occhi le cose che gli ho narrato. Vuole controllare, sapere la verità. Lui pensa che la mia mente stia vacillando e che io giri e rigiri vecchie favole di robot, mezze verità, mezze fantasie, arricchite e mutate e impreziosite dai lunghi secoli, da tutte le volte nelle quali io le ho narrate.

Questo lui non lo ammetterebbe per nessuna cosa al mondo, ma è quello che pensa, il piccolo bugiardo. Lui non crede che io lo sappia, ma io lo so.

Non mi può ingannare, disse Jenkins, ridacchiando tra sé. Nessuno di loro mi può ingannare. Li conosco meglio di quanto loro non si conoscano… so di che cosa sono fatti, so tutto, tutto di loro. Io ho aiutato Bruce Webster a creare il primo cane. Sono stato io ad ascoltare le prime parole uscite dalla gola di un cane. E se loro hanno dimenticato, io non ho dimenticato… non un’espressione, né una parola, né un gesto.

Forse è naturale che abbiano dimenticato. Hanno fatto grandi cose; io li ho lasciati fare, non ho interferito molto, ed è stato meglio così. Jon Webster mi ha detto che doveva essere così, in quella notte di tanto, tanto tempo fa. È per questo motivo che Jon Webster ha fatto quello che ha fatto per chiudere, isolare dal mondo la città di Ginevra. Perché è stato Jon Webster a chiudere la città. Deve essere stato lui. Non poteva essere stato un altro.

Jon Webster aveva detto che pensava di rinchiudere per sempre la razza umana, per lasciare la Terra libera per i cani. E quando aveva chiuso la città… era stato sicuro di avere ottenuto il suo scopo. Ma aveva dimenticato una cosa. Oh sì, mormorò Jenkins, Jon Webster aveva dimenticato una cosa. Aveva dimenticato suo figlio e la sua piccola banda di amici, amici che con l’arco e le frecce erano usciti dalla città, al mattino, per giocare agli uomini delle caverne… e anche alle donne delle caverne, perché c’erano state delle donne tra loro.

E il gioco, pensò Jenkins, era diventato un’amara realtà. Una realtà che dura ormai da mille anni, da quando finalmente noi li abbiamo trovati e li abbiamo riportati a casa. Alla Casa dei Webster, dove tutto, tutto era cominciato.

Jenkins incrociò le braccia, giunse le mani in grembo, e piegò il capo, e continuò a dondolarsi lentamente sulla vecchia sedia, avanti e indietro, avanti e indietro. La sedia a dondolo cigolò raucamente e il vento ululò tra le foglie e una finestra tintinnò lontano. Il caminetto parlava con la sua gola cavernosa e lontana, parlava di altri giorni e di altre genti, di altri venti che avevano soffiato tempestosi da occidente.

Il passato, pensò Jenkins. È una cosa futile. Una cosa stupida, quando c’è tanto da fare. Quando ci sono tanti problemi che i Cani devono ancora affrontare.

Il problema della popolazione, per esempio. Questa è la cosa sulla quale abbiamo meditato e della quale abbiamo parlato per troppo tempo. Ci sono troppi conigli, perché nessun lupo e nessuna volpe li possono uccidere. Ci sono troppi daini, perché i leoni di montagna e i lupi non possono cacciare la selvaggina. Ci sono troppe puzzole, troppi topi, troppi gatti selvatici. Troppi scoiattoli, troppi porcospini, troppi orsi.

Proibite il più grande controllo della popolazione, proibite di uccidere, e avrete troppe vite. Tenete sotto controllo le malattie e prestate soccorso ai feriti e ai malati con i robot medici, veloci ed efficienti e perfetti, e un altro grande controllo della popolazione se ne va.

L’uomo aveva pensato a questo, si disse Jenkins. L’uomo non aveva corso questi pericoli. Sì, l’uomo aveva posto rimedio all’inconveniente. Perché gli uomini uccidevano chiunque si trovasse sulla loro strada… altri uomini come animali.

L’uomo non aveva mai pensato a una grande società animale, non aveva mai sognato che la puzzola e il procione e l’orso percorressero insieme la strada della vita, pensando insieme, progettando insieme, aiutandosi l’un l’altro… mettendo da parte, forse per sempre, tutte le differenze naturali.